“Perché la scrittura è cura dell’anima”

Abdulrazak Gurnah, premio Nobel per la letteratura, si racconta Da Zanzibar all’ultimo romanzo. Fino a una certa idea di paradiso
di Raffaella De Santis
Quando risponde alle domande Abdulrazak Gurnah sembra riannodare ferite antiche stemperandole nella pacatezza della voce. Dopo aver ricevuto lo scorso ottobre il premio Nobel, questo serio accademico poco avvezzo alla ribalta ha dovuto imparare ad occupare la scena. Lo abbiamo raggiunto via Skype in occasione della ripubblicazione da parte della Nave di Teseo del suo romanzo capolavoro, Paradiso .
Gurnah non ha posture professorali, nonostante per anni abbia insegnato letteratura inglese e postcoloniale all’università del Kent. È seduto dietro a un tavolo spoglio del suo studio nella casa di Canterbury. Nei suoi romanzi racconta migranti, rifugiati, esiliati. In Paradiso invece segue le peripezie di Yusuf, un ragazzino dato in pegno dal padre a un mercante.
Quando ha deciso che avrebbe abbandonato la sua terra?
«È stata una decisione maturata giorno dopo giorno. Da tempo pensavo a come trovare il coraggio.
Rimanere lì era impossibile. Volevo studiare, costruire me stesso, vivere.
Intorno vedevo solo miseria. Non è stato facile lasciare la mia famiglia, gli amici. A 18 anni sono partito insieme a mio fratello».
Il distacco è stato molto doloroso?
«Al momento non avevo realizzato fino in fondo che cosa significasse quella decisione. Non si tratta mai solo di una destinazione geografica: quello che ti stai lasciando alle spalle ti tormenterà per il resto della vita».
Dovremmo ricordarcelo quando pensiamo ai rifugiati?
«Fuggono dalle guerre, dalle violenze. Non arrivano mai a mani vuote.
Hanno voglia di fare, lavorare, hanno abilità da mettere in campo, competenze che possono essere utili.
Molti sono giovani e pieni di energia».
Come mai scelse l’Inghilterra?
«In realtà pensavo che sarei stato felice da qualche altra parte ma non sapevo dove. Ma Zanzibar era stata colonizzata dai britannici e la mia formazione era inglese, dunque andare in Inghilterra era più semplice perché quella cultura mi era familiare».
Lei scrive i suoi libri in inglese. Che risponde a chi dice che è la lingua dei colonizzatori?
«L’inglese che veniva parlato cento anni fa era pieno di disprezzo per le persone non europee. Ma la lingua cambia, si evolve. La lingua che uso io, come persona ex colonizzata, tiene conto anche di questo: è il risultato della mia consapevolezza e resistenza. Non mi opprime. Inoltre oggi che l’inglese è diffuso ovunque, ha smesso di rappresentare una nazione e appartiene a chi se ne serve».
La deluse il suo primo approccio con l’Europa?
«Al mio arrivo in Inghilterra trovai un altro paese, non quello che ci avevano raccontato. Mi resi conto che il colonialismo aveva modellato il nostro immaginario attraverso una narrazione non reale, della quale ho dovuto sbarazzarmi per guardare il mondo con altri occhi».
Ha iniziato a scrivere per conquistare uno sguardo nuovo?
«La scrittura mi è servita a guardarmi dentro, a capire i miei pensieri. Ho iniziato a scrivere non perché volessi diventare uno scrittore ma perché quando avevo pensieri tristi mi faceva sentire meglio. Piano piano quegli scritti hanno cominciato a prendere una forma artistica».
Ricorda il giorno in cui si è detto: scriverò un romanzo?
«Un giorno sono uscito di casa per andare a comprare un quaderno in cartoleria con un animo diverso dal solito. Dentro di me già sapevo che al ritorno mi sarei seduto al tavolo per provare a scrivere narrativa. Ero un ventenne, frequentavo Lettere all’università di Canterbury».
Come mai scelse di studiare letteratura?
«Non fu una scelta immediata.
Inizialmente sia io che mio fratello avevamo iniziato a seguire materie scientifiche ma poi i soldi sono finiti e siamo stati costretti ad andare a lavorare. Trovai un impiego all’ospedale come assistente in una sala operatoria. In quella fase difficile mi sono detto: appena potrai, studierai letteratura. Era la materia che da fin dalla scuola amavo di più».
Che libri leggeva da giovane a Zanzibar?
«A Zanzibar circolavano pochi libri, da una parte perché costavano troppo, dall’altra perché mancava la consapevolezza del loro valore.
Leggevo molto e un po’ di tutto ma adoravo Saul Bellow, Bernard Malamud, James Baldwin. Provavo a comprendere la mia storia attraverso gli scritti di altre persone».
Sono stati i suoi genitori a trasmetterle la passione della lettura?
«Le persone della loro generazione erano alfabetizzate, sapevano scrivere, ma non erano state educate nelle scuole pubbliche e non leggevano. Usavano sempre l’alfabeto arabo, anche quando scrivevano in swahili».
Che lavoro facevano?
«Mio padre era un mercante.
Comprava e rivendeva ai negozi prodotti che arrivavano dall’Oceano indiano prevalentemente durante la stagione dei monsoni: verdure, pesce, uova. Non aveva un proprio emporio, era un grossista».
Ha avuto un’infanzia felice?
«L’infanzia e la giovinezza sono state divertenti, almeno fino alla Rivoluzione del 1964 che seguì all’indipendenza dal Regno Unito.
Fino ad allora andavo a scuola, giocavo a pallone per strada, ero circondato da amici».
Nel romanzo racconta storie di oppressioni di donne e bambini e le avvicina a scenari paradisiaci.
«Nella lingua farsi il paradiso è un giardino circondato da mura, chiamato pairidaeza . È un’idea antica, in fondo non è altro che il tentativo di dare al nostro desiderio di pace una sembianza fisica, tangibile».
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