Perché la cultura riparte da qui

di Stefano Massini
«Ti confermo che il festival a settembre lo facciamo. Poi ovviamente chissà… » . Questo messaggio l’ho ricevuto su whatsapp nel mese inoltrato di giugno. A scrivermelo era il direttore di uno dei più grossi eventi culturali italiani, di cui sarò ospite fra pochi giorni, con quel nomadismo festivaliero che da anni mi vede intervenire, entusiasta, dagli amici del Festival della Comunicazione di Camogli come al modenese Festival della Filosofia. Credo tuttavia di dover partire dalle parole di quel messaggio per raccontare lo spirito di un settembre strano, denso di incognite eppure sfavillante di un’adrenalina contagiosa. Siamo sinceri: il dubbio regna sovrano mentre si scaldano i motori per le settimane elettrizzanti dei festival, non soltanto occasioni straordinarie d’incontro e di condivisione, ma anche tappe essenziali per cogliere il flusso di quel composito mosaico denominato cultura. C’è bisogno dei festival.
Ce n’è bisogno profondamente, ce n’è bisogno quanto mai adesso, in un anno scellerato in cui la segregazione sanitaria rischia di farci apparire una minaccia tutto ciò che fa rima con socialità. E i festival incarnano il paradigma opposto, declinando la necessità di una conoscenza che è prima di tutto contiguità di corpi, cenacolo sì di menti ma anche di sensibilità e di respiri. Nell’anno in cui si è demonizzato il corpo umano, i festival ci si presentano con il loro statuto naturale di luogo per i corpi, in cui solo l’essere insieme crea le condizioni per una trasmissione di contenuti e di racconti. Per questo, senza dubbio, percepisco qualcosa perfino di eroico nell’ostinazione con cui si procede “nonostante tutto” a varare una stagione variopinta di appuntamenti e titoli: il mese dei festival si profila (e così dovrà essere percepito) come la vera antitesi al lockdown della primavera, perché solo adesso, dopo mesi di gestazione e faticosissimo rialzo, il settore della cultura tenterà davvero di ingranare la marcia. È un passaggio fondamentale, che avverrà con un prezzo altissimo. Basta dire che fino allo scorso anno, in tempi cosiddetti normali, era consuetudine registrare lo sconforto di tanti operatori per i ritardi nei finanziamenti pubblici, per l’inattendibilità di certe promesse politiche o per il defilarsi di uno sponsor all’ultimo momento, ma era niente in confronto all’incertezza di questi giorni appesi alla tirannia dei numeri, ostaggi di autorizzazioni provvisorie. E dunque «Ti confermo che il festival a settembre lo facciamo. Poi ovviamente chissà… » : più ci penso, e più mi sembra il mantra di migliaia di persone che in queste ore, in tutta Italia, lavorano agli ultimi ritocchi di una macchina complessa, fatta di incontri, spettacoli, lezioni, proiezioni, tavole rotonde, forum e qualunque altra forma si possa inventare per tenere il polso a una contemporaneità sfuggente. Nessuna edizione è stata mai così difficile, non fosse altro perché la spada di Damocle dell’inopportuno convitato virale ha imposto a tutti di delineare una exit strategy nel caso estremo in cui gli eventi pubblici venissero abrogati. In quel caso? In quel caso il festival dovrà interamente trasferirsi online, puntando tutto sullo streaming. Servirà a non disperdere al vento un anno intero di lavoro, e come tale ben venga. Ma non fingerò che sia la stessa cosa. No, non lo è. Chi frequenta i festival sa bene che il miracolo prende forma da quello che potremmo definire il loro fattore umano, intendendo per tale i volontari alle transenne, gli stagisti che bevono una birra sfiniti a tarda notte, gli addetti all’organizzazione che sfidano l’ubiquità in bicicletta, e ancora le lunghe file di gente coi pass al collo, le panchine prese d’assalto all’ora di pranzo e con esse i gradini di una chiesa. Ebbene sì, nessuno tocchi il fattore umano.
Nessuno sminuisca il ruolo del sudore, dei crampi alle gambe, delle corse a ripararsi se scoppia un temporale o dello sventagliarsi se settembre insiste con la canicola. Tutto questo non è affatto una componente accessoria o marginale di ciò che sta, come ogni anno, per iniziare, viceversa ne rappresenta lo spirito più radicato e urgente, da cui sarebbe madornale prescindere non fosse altro perché i festival sono eredi diretti dei cicli tragici ellenici e delle sacre rappresentazioni tardo-medievali dove tutta la città era coinvolta. Se ho deciso di parlarne, sono sincero, è perché un dubbio mi attanaglia da alcuni giorni rileggendo quel messaggio « Ti confermo che il festival a settembre lo facciamo. Poi ovviamente chissà…». Il punto è: cosa dovremmo realmente temere, per la sopravvivenza dei festival in questo settembre del 2020? Chi è il vero nemico? Chi si nasconde dietro quel chissà? Il blocco delle attività a causa del virus si è di fatto protratto fino a maggio, e com’è noto l’anno scolastico non ha potuto neppure concludersi in aula. Significa che l’estate — intesa come occasione di turismo e svago — ha coinciso con il disperato tentativo di un intero paese di riappropriarsi della propria identità. Anche per ragioni economiche, ciò doveva essere preservato, per evitare lo sfascio completo. E così è stato, probabilmente anche chiudendo gli occhi su pestifere baldorie. Ma adesso? Adesso la priorità è la ripresa delle scuole, appuntamento vissuto dalla politica come un banco di prova su cui non è ammesso fallire. Ecco, la mia paura è che un’improvvisata gerarchia di priorità finisca per costringere la breve stagione dei festival fra due monoliti, da una parte i bagordi balneari, dall’altra la campanella. Lo dirò qui con estrema chiarezza: scordiamoci di immolare la stentata ripresa della cultura sull’altare dell’ansia prescolastica, facendosi prendere d’un tratto da improvvise scudisciate di rigore dopo che in agosto si è bonariamente tollerato di tutto. I festival non sono sagre paesane che seppure a malincuore possono saltare un giro: la loro organizzazione è in cantiere da mesi proprio per preservare la salute del pubblico ed evitare i contagi, pertanto nessuno si sogni di poterne allegramente vanificare gli sforzi. Sarebbe, oltre che ridicolo, un definitivo colpo letale a tutto il sistema della nostra cultura. Senza contare che apriremmo l’anno scolastico sotto i peggiori auspici, perché un nesso inscindibile lega la scuola alla numerosa comunità di adulti che affollano i festival. Per una volta, dunque, non ci siano barriere fra linguaggi e generi: dall’intero assortito mondo dei nostri festival emerga — nitida, orgogliosa e fortissima — la consapevolezza del loro ruolo, e con essa la fermezza nel promettere una risposta terribile, appena qualcuno ne mettesse in dubbio l’esistenza. Certo, ogni regola dovrà essere al millimetro rispettata, ogni normativa troverà applicazione con l’unico obiettivo di preservare la salute di chi frequenta i festival e con essi di chi vi lavora, anche perché dal mondo della cultura non ci si può aspettare altro che una lucida consapevolezza del momento in corso, lontano da qualsiasi caciara negazionista. Ma non si confonda questo realismo con una disponibilità all’harakiri, perché sarebbe un insulto intollerabile addebitare alla cultura il saldo delle negligenze altrui. Nossignore, non potremo permetterlo.
Robinson – la Repubblicawww.repubblica.it › robinson