Si tratta di stringere alleanze con diversi gruppi, professioni e istituzioni in modo pensato e non improvvisato, dando concretezza alla costruzione di patti per lo sviluppo culturale dei territori, come si sta sperimentando in piccole città e a Napoli, Palermo o Milano, con la proposta di ” scuola sconfinata” presentata al sindaco Sala da un composito movimento. Per cominciare talvolta bastano piccoli gesti sensati, come creare isole pedonali intorno alle scuole perché la pratica dell’educare invada le strade e faciliti i bambini e ragazzi nel loro andare a scuola a piedi, come suggeriscono i progetti della ” città dei bambini” proposti da Francesco Tonucci.
Per chi suona la campanella della libertà
Manifesto per la scuola rimandata a settembre
di Franco Lorenzoni
Il 15 gennaio 1945, prima ancora che finisse la guerra, Anna Maria Melli fondò con suo marito Ernesto Codignola ” Scuola- Città Pestalozzi” nel rione Santa Croce, allora tra i più poveri di Firenze. La scuola nacque per offrire alle famiglie più disagiate «uno spazio educativo per la formazione del cittadino, dove coniugare l’istruzione e il consolidamento di una coscienza civica e democratica». L’anno seguente venne riconosciuta dal ministero della Pubblica istruzione come scuola di «differenziazione didattica » perché proponeva il tempo pieno come indispensabile supporto nel contrasto delle discriminazioni sociali. Torno a quell’evento lontano perché la relazione con la città e la questione del tempo sono centrali per ripensare alla scuola e risarcire il milione e mezzo di studenti esclusi per mesi da ogni forma di istruzione. Non è mai troppo tardi.
Oggi la scuola, per svolgere pienamente la sua funzione costituzionale e garantire una buona istruzione per tutti tutelando i più fragili, ha bisogno di grandi investimenti, convinzioni profonde, formazione dei docenti e un riconoscimento sociale che le manca da decenni. Eppure, come negli amori finiti male, l’assenza ha suscitato inquietudini che hanno incrinato luoghi comuni consolidati. L’irruzione nello spazio domestico della didattica, con i volti di maestre e insegnanti che apparivano nelle ore più diverse, ha reso possibile un incontro ravvicinato con la pratica dell’insegnare che ha smosso qualcosa.
Le insegnanti più impegnate ( uso il femminile perché sono donne all’82 per cento, e salgono al 96 per cento nelle primarie) insieme ai loro colleghi si sono trovate a svolgere un lavoro del tutto inedito, quando si è trattato di andare a recuperare gli studenti persi per far loro arrivare i device forniti dalla scuola. In questa ricerca, che portava a un confronto diretto con il contesto sociale e antropologico dei propri allievi, hanno trovato spesso sostegno nei servizi sociali, negli operatori più radicati nel territorio e nelle stesse famiglie, che spesso si sono mostrate capaci di attenzioni reciproche e solidarietà inaspettate.
Scoprire con i propri occhi quanto le case siano ancor più discriminanti della scuola e avvilirsi per i troppi bambini e ragazzi ridotti a fantasmi perché irraggiungibili, ha portato a un bagno di realtà che ha ravvivato il senso di responsabilità sociale di una professione tristemente impoverita e troppe volte vilipesa. Anche l’essere costretti a cimentarsi con quell’inedita forma di non scuola rappresentata dalla didattica a distanza, ha comportato impegno e fatiche fuori dal comune e nuove domande sulla centralità del corpo e della presenza che potrebbero divenire generative. Ma per fare i conti con i propri limiti e, di conseguenza, anche con le proprie risorse e capacità, c’è bisogno di non sentirsi sotto assedio. Ecco perché quel piccolo varco di riconoscimento pubblico verso un mestiere sottopagato e sottovalutato va tenuto aperto con la massima attenzione, perché forse per la prima volta da tempo l’istruzione può tornare a essere considerata una priorità sociale.
Dalle crisi si può uscire in tanti modi. Ma le condizioni sono date dalle forze in campo e dalle idee che circolano, perché gli anni Trenta partorirono il New Deal, ma anche il nazismo. E allora va riconosciuto che le più interessanti idee educative in circolazione nascono dalle sperimentazioni più radicali, praticate nei territori a rischio o con i sempre più numerosi bambini e ragazzi in difficoltà che abitano le nostre scuole. Idee forgiate nell’attrito con ostacoli duri da rimuovere, da insegnanti capaci di mettersi in discussione nell’affrontare vecchie e nuove discriminazioni e dal miglior attivismo sociale, capace di grande vitalità pur nell’estrema frammentazione.
Il primo passo, suggerito da una vasta rete di reti chiamata ” EducAzioni”, riguarda l’impressionante carenza di nidi nei quartieri in cui ce ne sarebbe maggior bisogno, perché il modo più efficace per «prevenire le ineguaglianze nel corso della vita sta nell’investire sull’educazione di bambine e bambini da zero a tre anni».
Il secondo passo riguarda l’apertura della scuola alla città. Non si tratta solo di reperire nuovi spazi e immaginare nuovi modi di svolgere attività didattiche in giardini, terrazze, biblioteche, piazze o centri di aggregazione, ma di coinvolgere bambini e ragazzi in prima persona nella sfida di ripensare la città, arricchendo di altri punti di vista l’immaginario collettivo.
La condizione è che questi primi passi si realizzino nel quadro di consistenti finanziamenti aggiuntivi alla scuola pubblica, da dedicare alla costruzione e trasformazione degli edifici scolastici da ripensare profondamente, a una formazione dei docenti organizzata dal basso che valorizzi le esperienze più innovative e a nuove assunzioni, necessarie per non correre il rischio di svendere parti dell’istruzione pubblica al privato, sia pure sociale, come si è fatto con la sanità in Lombardia. Solo una scuola più forte, capace di dare dignità e cittadinanza anche a chi non ce l’ha, a partire dai figli di immigrati e delle famiglie che stanno scivolando verso la povertà, può aprirsi e progettare fruttuosamente insieme al composito mondo del terzo settore e del civismo attivo, coordinandosi Asl, Comuni e Municipi.
La scuola da sola, infatti, in troppe situazioni non ce la fa a contrastare una dispersione scolastica risalita al 14 per cento. Il colloquio tra docenti e operatori sociali è dunque necessario, anche se non sempre facile. Eppure penso che oggi una ragazza o ragazzo che rischia di precipitare nel calderone degli oltre due milioni di giovani che non studiano e non lavorano ha bisogno di incontrare più offerte possibili di educazione formale e informale, più mestieri e iniziative culturali per trovarsi e cercare di individuare la sua strada. La contrapposizione tra istruire ed educare, ciclicamente riproposta, non ha senso perché una buona istruzione a contenuti imprescindibili, come un uso ricco e articolato della lingua per capire, esprimersi e ragionare, è possibile solo se alimentata dall’esempio e dalla persuasione di chi insegna, perché il corpo convince assai più delle parole.
Anche per avventurarsi nella vasta e ricca prateria del web bisogna avere domande da porre e riferimenti culturali ricchi, per non restare imbrigliati nella piovra dell’algoritmo. Per questo è necessaria una scuola attiva, capace di sporgersi oltre le sue mura, dove esercitarsi quotidianamente in un corpo a corpo vivace con gli oggetti culturali. Ma per praticare il dialogo scontrandosi e accordandosi tra diversi e coltivare il pensiero lento e riflessivo c’è bisogno di tempo. E allora il terzo passo necessario deve portare all’apertura delle scuole per l’intera giornata in tutto il territorio, colmando una delle tante riforme lasciate a metà, visto che il tempo pieno nella scuola di base, a mezzo secolo dalla sua introduzione coinvolge appena un terzo di bambini e ragazzi.
Avere oggi docenti in numero tale da garantire un prolungamento del tempo scuola permetterebbe, nell’emergenza, di contare su personale sufficiente per un’organizzazione flessibile di classi necessariamente ridotte. Ma per realizzare tutto ciò bisogna convincerci tutti che almeno il 20 per cento del
recovery fund
deve essere destinato a scuola, ricerca e formazione. Pietro Calamandrei parlava della scuola come “incubatrice di vocazioni”. La parola incubatrice rimanda a un artificio capace di sostenere la vita quando la natura mostra i suoi difetti. Evoca la fragilità di ogni vocazione che ha bisogno di essere intesa, alimentata e protetta per essere riconosciuta e incarnata. L’insieme degli insegnanti e degli educatori è chiamato a tentare una sfida ai limiti dell’impossibile, perché deve cimentarsi ad attenuare i danni creati da disparità sociali in continua crescita. Tutti sono d’accordo nello scaricare su figli e nipoti un debito pubblico di enormi proporzioni. L’unico risarcimento eticamente necessario e socialmente indispensabile sta nel migliorare radicalmente l’offerta di istruzione.
Spesso la pedagogia, per assumere la portata radicale della sua funzione sociale, ha avuto bisogno di sguardi che venivano da altri mondi. È stato così con Maria Montessori, Ovide Decroly e Janus Korczak, tre medici che l’hanno profondamente messa in discussione all’inizio del ’900 individuando strumenti e percorsi capaci di dare ascolto e dignità ai più fragili. Oggi sappiamo che è in quella sfida che si sperimentano le soluzioni migliori per la scuola di tutti. Ilja, a tredici anni, ha detto: «A scuola fatico meno perché si pensa insieme » . È il miglior suggerimento per un Paese come il nostro, ricco di esperienze puntuali a cui dobbiamo dare maggiore spazio e respiro. Ricucire le fratture che lacerano le nostre città o costringono all’isolamento troppi paesi del sud e delle aree interne sarà possibile solo quando scuole, servizi e offerte culturali dei territori più degradati e dimenticati sapranno pensare insieme dando vita ai servizi sociali migliori e più ambiti. Ma per avviare quest’opera di avvicinamento sociale ciascuno deve assumersi le sue responsabilità.