Stime giudicate ottimistiche dagli esperti. Anche perché c’è una contraddizione. È vero che una clausola di salvaguardia consentirà di non scendere mai sotto gli 80 mila euro lordi. Ma chi – per esempio alti magistrati o professori universitari – è andato in pensione a 70 anni con assegni molto generosi non sarà toccato. La scure si abbatterà poi non solo sugli assegni futuri. Ma anche su quelli dal primo gennaio 2019 in poi.
Con distorsioni palesi. E dubbi aspetti di costituzionalità. Nel mirino la classe dirigente italiana. Il testo del progetto di legge – atto 1071, depositato ma non caricato sul sito della Camera – è scarno e confuso in alcuni punti. Firmato dai due capigruppo di maggioranza a Montecitorio: Francesco D’Uva (M5S) e Riccardo Molinari (Lega).
Sei articoli asciutti e una relazione illustrativa per i tre quarti dedicata a dimostrare che l’intervento risponde a una «forte istanza sociale di solidarietà». Perché «equo, ragionevole, non arbitrario, proporzionale». In una parola: «costituzionale». L’unica «criticità» riconosciuta – la «non temporaneità», il taglio è permanente – verrà perdonata dalla Consulta perché c’è la crisi. E la ratio è correggere «palesi disuguaglianze». Il criterio Robin Hood, insomma. Togliere a chi ha per dare a chi non ha.
Ma come funziona nel concreto? Le pensioni pubbliche e private, passate e future sopra gli 80 mila euro lordi all’anno subiranno una penalizzazione. La parte retributiva degli assegni sarà ridotta in relazione all’età in cui ci si è pensionati. Prima te ne sei andato o te ne andrai, più ti colpisco. In sé un criterio comprensibile. Se non fosse che per decidere se sei meritevole di punizione, se in passato hai mollato troppo presto il lavoro e con super assegni, l’età di uscita di riferimento non è quella vigente all’epoca in cui uno è andato in pensione. Ma una nuova erà, ridefinita applicando in modo retroattivo la speranza di vita attuale indietro sino agli anni ‘70.
Facciamo due esempi, uno per il passato e uno sul futuro. Nel 1995 l’età per andare in pensione di vecchiaia era di 62 per gli uomini e 57 per le donne. Quella ricalcolata dai gialloverdi è 64 anni. Ecco che scatta la penalizzazione, fortissima per le donne che però non potevano far altro che andare in pensione a 57 anni. Per i 7 anni di anticipo “a sua insaputa” una professoressa o dottoressa viene punita con un taglio attorno al 20%. Quasi il 2,9% all’anno, quando la Fornero disponeva – ma per il futuro – un taglio del 2% l’anno. Applicato solo a chi anticipava davvero l’età di vecchiaia.
Il secondo esempio è sul futuro. Supponiamo che un alto ufficiale dell’Esercito, al lavoro da quando ha 19 anni, decida di andare in pensione nel 2019 a 62 anni, dopo 43 anni di servizio. Lo può fare. Ma se il suo assegno è sopra i 4 mila euro netti, allora sarà tagliato del 14,5% perché si trova a 5 anni da quota 67, l’età di vecchiaia prevista dalla legge. Se lascia a 65 anni, il taglio si abbassa al 6,4%.
I calcoli sono di Stefano Patriarca, esperto di previdenza e fondatore di Tabula: «Si colpisce una platea piccola – circa 68 mila persone in base alle mie proiezioni – ma in modo molto severo. Se ne ricaverà però non più di 300-400 milioni all’anno. Con un grosso rischio: la probabile bocciatura della Consulta, intanto perché il testo di legge parla di ricalcolo, quando invece si tratta di una penalizzazione data dal rapporto dei coefficienti di trasformazione. Vengono colpite le donne soprattutto, come pure militari e poliziotti che potevano andare in pensione prima. Ma non si interviene sulla vera stortura del metodo retributivo: premiare le carriere veloci che alzano gli stipendi negli ultimi anni di attività».