Partito Dementi.

 

Quando tre cittadini veneti e due lombardi su cinque vanno a votare in un referendum consultivo non si può far finta di niente. E serve a poco discettare sull ‘ inutil ità pratica di una consultazione che poteva essere sostituita, a costo zero, da un voto del Consiglio regionale per chiamare – come fa l ‘ Emilia Romagna – il governo a trattare sul ” r e g i o n alismo differenziato ” previsto dagli articoli 116 e 117 della Costituzione. Anche le polemiche sui 70 milioni buttati (soprattutto per acquistare i famosi 24 mila tablet, che Maroni chiama comicamente ” voting machine ” e han creato casini inenarrabili) o sulle false promesse di una rivoluzione fiscale che non era né poteva essere oggetto del referendum, andavano bene fino a domenica mattina. Ora c ‘ è un grosso fatto politico da interpretare. Non solo nella Lega, con la campagna elettorale dei tre galli del suo pollaio (Zaia, Maroni e Salvini). Ma anche negli altri partiti: i 5 milioni di votanti non sono solo della Lega e del centrodestra, ma trasversali. Anche i 5Stelle erano favorevoli (in Lombardia i loro consiglieri hanno persino redatto il quesito smussando le asprezze secessioniste di quello leghista), così come un bel numero di amministratori del Pd, che invece da Roma invitava all ‘ a st ensione. Ma non, come le sinistre, per contestare il referendum; bensì per non prendere posizione, avendone come al solito una mezza dozzina. Così ora il centrodestra può andare all ‘ incasso e spacciarsi per un monolite compatto (e non lo è: B. è saltato sul Carroccio del vincitore solo alla vigilia delle urne, la Meloni era contraria e i confratelli d ‘ Italia nordisti La Russa e Beccalossi favorevoli). I 5Stelle, più al Nord che sotto il Rubicone, possono dire di aver intercettato il malcontento che si è sfogato in quel quesito, anche oltre il suo significato letterale. E chi resta col cerino in mano e il marchio della sconfitta? Il solito Pd, sempre più incapace di interpretare e intercettare i movimenti del Paese e specializzato nel trovarsi sempre dalla parte opposta al popolo. Che ormai coglie ogni occasione per partecipare e manifestare la sua – magari confusa – voglia di cambiare. Intendiamoci: non basta vincere un referendum per avere ragione. È perfettamente legittimo sostenere che il regionalismo differenziato chiesto dalle due maggiori realtà del Nord (fra l ‘ altro approfittando di un ‘ o p p o r t u n ità concessa proprio dal centrosinistra con la riforma del Titolo V della Costituzione datata 2001) sia un errore. Noi, per esempio, ripetiamo da tempo che le autonomie regionali sono miseramente fallite. Èsprofondato in un pozzo nero di sprechi, malaffari, clientele e burocrazie. E la soluzione non è estendere gli statuti speciali o para-speciali alle regioni ordinarie, ma abolire tutte le regioni insieme alle province e immaginare un federalismo su base municipale, costruito intorno all ‘ unica istituzione davvero avvertita dai cittadini come amica e controllabile: il comune. Ma bisognerebbe, appunto, avere qualcosa da dire e poi dirlo. Andare in giro a spiegare il proprio progetto alternativo. Qual è invece la proposta del Pd? Nessuno lo sa, perché non esiste. Infatti il presunto segretario Renzi, così garrulo su tutti i temi che non gli competono (tipo la conferma o meno del governatore di Bankitalia), è riuscito a non dire mai una parola sui referendum del Nord, tenendo il suo trenino ben lontano dalle regioni settentrionali (come pure dalla Sicilia alla vigilia del voto), lasciando che i suoi esternassero in ordine sparso tutto e il contrario di tutto. Il sindaco renziano di Bergamo, Giorgio Gori, autocandidato a governatore regionale, ha votato Sì. Il sindaco pseudorenziano di Milano, Beppe Sala, aveva detto che avrebbe votato Sì e poi s ‘ è inventato un impegno urgente a Parigi per avere la scusa di assecondare gli ultimi desiderata del Nazareno, che parevano inclinare verso l ‘ astensione. In Veneto molti erano per il Sì. Il vicesegretario unico e ministro Maurizio Martina, bergamasco, ha atteso la vigilia delle urne per paventare addirittura una ” deriva catalana ” (per un referendum consultivo su un passaggio di funzioni previsto dalla Costituzione). La Prova d ‘ o rchestra di Fellini, al confronto, era un capolavoro di coerenza. La verità è che il Pd non ha niente da dire perché non ha nessuno che pensi, rifletta, elabori, discuta. E chi ci prova è un gufo da espellere. Raus . Molto meglio improvvisare, vivere alla giornata, navigare a vista, anzi a svista. Encefalogramma piatto. Negli ultimi vent ‘ anni, nelle sue varie reincarnazioni, il centrosinistra ha cambiato una dozzina di segretari, ma senza mai trovarne uno che riuscisse a parlare credibilmente a due delle regioni più avanzate d ‘ Italia. Infatti ha perso tutte le elezioni, salvo quando ha preso a prestito candidati di centrodestra (tipo Sala). E, dopo ogni scoppola, s ‘ è ritrovato nei salotti televisivi a spiegare (ma a chi?) che la Lega vince perché ” radicata nel territorio ” e i 5Stelle vincono perché ” r ad icati nelle periferie ” . Intanto i papaveri pidini seguitavano a radicarsi nelle terrazze romane, nei Cda delle banche e nei summit di Confindustria. A strillare contro i ” p opul ist i ” che hanno il brutto vizio di essere popolari. E poi a tentare, trafelati, di recuperare il contatto perduto con la società da Maria De Filippi (lo fece Fassino, lo rifece Renzi travestito da Fonzie) o al Festival di Sanremo (Bersani, tra i fischi). Peggiorando, se possibile, la situazione. La miglior definizione dei dirigenti del Pd la diede, senza volerlo, Carlo Cipolla a proposito di quanti – d i v e r s amente dai mascalzoni che danneggiano gli altri per favorire se stessi – riescono a danneggiare sia gli altri sia se stessi. Infatti parlava degli stupidi.
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