di Aldo Cazzullo
Quante volte abbiamo celebrato il funerale dei partiti? Invece sono più vivi che mai. Meglio, sono più che mai le leve per il potere. Renzi è arrivato a Palazzo Chigi dopo aver scalato il Pd. Salvini ha conquistato la segreteria della Lega, con l’accordo che Tosi sarebbe stato il candidato premier, e ora l’ha cacciato. La nuova legge elettorale mette i partiti al centro di tutto: il partito più votato avrà il premio di maggioranza, i capi partito designeranno gran parte degli eletti. Eppure non ci sono né le regole, né le garanzie, forse neppure la volontà necessarie ad aprire i partiti alla partecipazione dei cittadini.
Chi si iscrive oggi a un partito, e perché? Quanti tra i giovani fanno politica? Sono davvero i migliori coloro che si avvicinano alla cosa pubblica? È lecito dubitarne. I partiti sono molto diversi da quelli di un tempo: non hanno sezioni, non hanno giornali, non hanno scuole di formazione e di pensiero, non hanno ideologie, forse non hanno neppure idee forti. Però non hanno mai avuto tanta influenza. Neppure i segretari della Dc e del Pci ricevevano premi di maggioranza e nominavano i propri parlamentari; e quasi mai il leader e il presidente del Consiglio erano la stessa persona (com’è accaduto a Berlusconi e come accade a Renzi). Eppure la Prima Repubblica era la Repubblica dei partiti. «Il partito, questo incredibile strumento del potere che da un giorno all’altro ti innalza ai vertici dello Stato, ti dà poteri economici decisionali anche se fino a ieri hai scritto libri di nessun valore, anche se sei un economista di cui nelle università dei Paesi avanzati riderebbero…»: così ha scritto Giorgio Bocca a proposito dell’ascesa di Fanfani; fin troppo severamente, visti i successori. «Partitocrazia» la chiamò Pannella.
Poi il sistema ricalcato sul mondo diviso in blocchi fu travolto dalla fine della Guerra Fredda, e dal dilagare insopportabile della corruzione. Una buona legge che portava il nome dell’attuale capo dello Stato creò collegi uninominali, in cui non si votava più un simbolo ma una persona. Si ironizzò sulle variazioni botaniche e floreali di partiti che erano stati potenti. Cominciò la stagione dei sindaci, che seppero interpretare la loro città e parvero offrire una nuova visione della politica, più aperta e vicina ai cittadini. E anche loro provarono a fondare un partito.
Oggi i sindaci non hanno più un soldo e sono ai minimi storici: Orsoni arrestato, de Magistris reintegrato dal Tar, Doria sbertucciato per strada, ora Tosi espulso; di Zedda e Merola si sono perse le tracce; a Palermo e a Catania ci sono gli stessi di oltre vent’anni fa; Pisapia non si ricandida (Marino purtroppo sì).
È vero che un ex sindaco mai passato dal Parlamento siede a Palazzo Chigi. Ma Renzi è salito al potere prendendosi il Pd e usandolo come una leva per scalzare Letta e insediarsi al suo posto. Ora, dopo aver concordato con Berlusconi una legge che enfatizza il ruolo dei partiti, annuncia di volerne uno «meno leggero di quello che pensavo», in cui iscritti e tessere tornino a pesare.
È difficile credere che Renzi desideri un improponibile ritorno al passato. Ma il futuro è tutto da costruire. La Costituzione all’articolo 49 prevede che all’interno dei partiti debba valere «il metodo democratico». Da decenni si discute di una legge che fissi regole per il funzionamento interno delle forze politiche (e sindacali); ora si parla di regolamentare per legge le primarie. Parliamoci chiaro: sarà molto difficile che queste norme vedano la luce. Ma non per questo il problema può essere eluso.
La semplificazione che le riforme di Renzi imprimeranno al sistema, sia pure al prezzo di qualche forzatura, può essere salutare. Ma proprio per questo servono regole chiare. Spesso le primarie, comprese le ultime in Campania, hanno creato più problemi di quelli che hanno risolto. I partiti rischiano di diventare club elettorali del capo e comitati d’affari, che inevitabilmente alimentano una corruzione tanto diffusa da non destare neppure più scandalo. E i social network sono una scorciatoia più semplice ma alla lunga più fragile del lavoro culturale e organizzativo che occorre per costruire movimenti attorno a energie e a interessi.
Oggi la politica non attrae i talenti e le intelligenze. Non forma quadri dirigenti e bravi amministratori. Disgusta o annoia, come confermano i dati d’ascolto dei talk-show . Il confronto delle idee langue, il livello della discussione pubblica non è all’altezza della gravità della situazione. Questi partiti tornati potenti si impoveriscono procedendo per espulsioni e promozioni non dei migliori ma dei fedeli. Trovare nuove forme di partecipazione e di rappresentanza è fondamentale, se non vogliamo rassegnarci a una politica ridimensionata a una questione per pochi intimi, con i militanti ridotti a clientes arraffoni o a fondale plaudente con bandiere a favore di telecamera .