I segreti del genio Pierre Boulez maestro di passioni estreme.

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Squisito nei modi, intransigente nei fatti. Raffinato conversatore, radicale compositore, direttore analitico. Matematico di formazione, ha sempre giocato nelle sue partiture con i numeri e con il caso. Lucido e tagliente come una lama, Pierre Boulez è il Robespierre della musica del nostro tempo.
Celebrato, venerato, detestato. Una sfinge ineludibile capace di scatenare passioni estreme ancora oggi, alla soglia dei 90 anni. Li compirà il 26 marzo, ma i festeggiamenti dilagheranno nei prossimi mesi in Francia e in tutta Europa. A Lucerna, dove Boulez è compositore in residenza, in agosto si terranno 11 concerti di opere sue più otto novità scritte per lui da rinomati compositori.
A Berlino, a fine marzo, Barenboim dirigerà un florilegio bouleziano con i Wiener, la Divan e la Staatskapelle. A Parigi, l’Ensemble Intercontemporain creato da Boulez nel ’76, eseguirà tra il 20 e 21 marzo brani del maestro con novità commissionate per l’occasione. Tra cui Messages et Esquisses di Ivan Fedele, compositore italiano tra i più autorevoli, dal 2012 direttore della Biennale Musica. «Il primo Leone d’oro alla carriera l’ho attribuito proprio a Boulez — racconta Fedele —. Per me un maestro assoluto a cui devo il mio inizio di carriera. Nel ’91 frequentavo i corsi dell’Ircam, l’istituto di ricerca sonora guidato da lui, quando seppi che aveva scelto un mio pezzo per un concerto da dirigere a Roma. Dove, a fine serata, mi propose di scrivere un altro brano per il suo Ensemble. Da li ci siamo incontrati molte volte. E’ un uomo di straordinaria severità e coerenza. Capace di apprezzare musiche che non appartengono al suo mondo». Persino quelle di un rocker come Frank Zappa cui affidò negli anni 80 tre sue composizioni per chitarra. Ma se un musicista non gli piace Boulez non usa mezzi termini. Senza pietà ha stroncato i minimalisti americani, da Glass a Reich, «troppo semplici per essere interessanti», ha definito John Cage «triviale», mentre a Nyman ha riservato un perfido «chi è?». «Può essere molto crudele nella sua sincerità — conferma Fedele —. L’ho sentito bollare un mio collega italiano con: è solo vuoto». Ma la sua fama di avere un pezzo di ghiaccio al posto del cuore non è meritata. «Una volta ho sentito l’incisione di uno straordinario Adagietto della Quinta di Mahler. Trasparente, distaccato, molto commovente. Quando ho scoperto che a dirigerlo era Boulez mi sono reso conto della profonda umanità di cui è capace. Anche nella vita. Per anni ha aiutato la vedova di Maderna a mandare a scuola i figli. Senza dire niente a nessuno».
Memorabile la sua esecuzione del Ring wagneriano, regia di Chéreau, nel ’76 a Bayreuth. Mentre nel ’79 alla Scala diresse Lulu di Berg da lui definita «la più grande opera nel senso convenzionale del termine». Con la lirica però i rapporti sono stati sempre conflittuali. «La soluzione più elegante per i problemi dell’opera — è solito ripetere — è di bruciare i teatri». Alla fine però aveva accettato di comporne una, da Aspettando Godot di Beckett. Purtroppo i malanni alla vista gli hanno impedito di portare a termine quest’ultima sfida.
«Temo che ormai abbia grandi difficoltà a comporre — commenta Mario Messinis, musicologo, direttore del Bologna Festival, che ha conosciuto bene Boulez —. Un gran signore, ma amabile solo in apparenza. Molto scettico sulle nuove generazioni di compositori, per lui votati a una musica troppo “facile”. In Italia amico di pochi, tra cui Berio, Donatoni, Pollini. Duro nei giudizi ma arguto». Come quando, a chi gli chiedeva cosa volesse dire essere moderno, rispose: «Andare in una direzione che non si conosce, che si intuisce, ma che diventa la tua priorità». Aggiungendo tranchant: «Se non si vuole cambiare il mondo non si ha diritto di parola».
Giuseppina Manin