Oggi Gesù Cristo è un sindacalista dalla pelle nera

Un Vangelo dei giorni nostri. Tra migranti sfruttati e baraccopoli. Un film che unisce denuncia e sacra rappresentazione
GIANNI CIPRIANO
«In Italia va decostruita tutta una serie di luoghi comuni che vivono di frasi fatte… Come quella che parla di “lavoro rubato”. Non si può continuare a ragionare così. Laddove non ci sono i migranti l’economia agraria è in ginocchio. Gli italiani non sono più disposti a lavorare in campagna come braccianti, per contro neanche i datori di lavoro sono disposti ad assumerli. La retorica della guerra tra poveri si fonda su un dato di realtà trascurabile». A parlare è Yvan Sagnet, 35 anni, ingegnere, camerunense, attivista in Italia per i diritti e contro lo sfruttamento in agricoltura, ma anche interprete, nel ruolo di Gesù di Nazareth, nel film documentario (e spettacolo teatrale) che il regista svizzero Milo Rau ha ambientato a Matera. La capitale della cultura nel 2019, l’eterno set dei grandi film sul Cristo, diventa così anche scenario del dramma quotidiano di chi porta sulle nostre tavole cibo frutto del sangue e del sudore della propria fronte.
Dal connubio di queste esperienze nasce “Das Neue Evangelium”, il Nuovo Vangelo: Rau, che si è ispirato al Vangelo proletario di Pier Paolo Pasolini, si domanda: «Se la lotta di Gesù era politica, oltre che religiosa, per chi si sacrificherebbe, oggi?». Per rispondere gli basta guardarsi intorno, nella campagna lucana dove, sfruttati dal sistema del caporalato, lavorano i braccianti. Ecco i frutti della terra che intende raccontare: gli ultimi da salvare.
«Il Nuovo Vangelo è un film che cerca di portare metaforicamente Gesù ai giorni nostri senza essere, però, mera propaganda politica», commenta Milo Rau, parlando della sua pellicola da poco presentata all’Idfa, Festival del Documentario di Amsterdam, appuntamento che ha seguito la presentazione alle giornate degli autori del Festival di Venezia. «Il mio desiderio era quello di collegare i due aspetti mantenendo le loro complessità specifiche. È un film sulla difficoltà legata alla conquista di un cambiamento. Nella Bibbia», conclude il cineasta, «Gesù è un perdente, perde contro i suoi nemici e viene crocifisso».
Il Gesù scelto per questo Nuovo Vangelo è quindi un sindacalista, come lo fu Enrique Irazoqui per Pasolini. La storia di Yvan Sagnet somiglia a quella di tanti altri migranti: nel 2011, infatti, scaduta la borsa di studio presso il Politecnico di Torino si è spostato a Nardò, in Puglia, durante la stagione estiva, per lavorare alla raccolta dei pomodori e mantenersi agli studi. È qui che ha organizzato una prima rivolta che ha dato inizio a un percorso da attivista che lo vede tuttora portavoce delle lotte dei braccianti in tutto il Mezzogiorno, dopo aver fondato “No Cap”, associazione nata per promuovere la legalità nel sistema produttivo del comparto agroalimentare.
Vedere Sagnet interpretare Gesù, al fianco dei suoi apostoli e seguaci, anche loro braccianti, riporta alla mente la fitta aria di diffidenza che si respira nei centri di accoglienza nei confronti del racconto dei media: difficoltà nel guadagnarsi la fiducia che probabilmente si sono ripresentate anche durante le riprese.
«I ragazzi hanno visto tanti giornalisti, politici, ong, sono stanchi. Inevitabilmente maturano la percezione che queste persone li stiano strumentalizzando per curare i propri interessi. C’è assuefazione: hanno parlato e visto molto, ma la loro condizione è immutata. Una cosa che potrebbe essergli utile è quindi vissuta molto negativamente. Giornalisti e telecamere non sono più accettati nei ghetti, sicuramente questo clima ha reso difficile anche la produzione del documentario», racconta Sagnet.
Nel film emergono anche le complessità intrinseche al sistema dei braccianti: il tema della fiducia e del tradimento ritornano nei momenti di sgombero, quando le persone sono più vulnerabili. «Sono giorni di altissima tensione. Si tratta del futuro e della vita delle persone. Gli attivisti devono gestire da una parte l’umore di chi verrà cacciato e dall’altra l’atteggiamento delle forze dell’ordine e della politica. Da entrambe le parti ci sono divergenze di vedute ed interessi. Non tutti hanno la stessa sensibilità e bisogna arrivare ad un punto di incontro».
Il tema dello sgombero è centrale: la rivolta della dignità raccontata nella pellicola è una campagna politica reale, incentrata sulla necessità di ottenere abitazioni dignitose accessibili per i braccianti.
«Quella dei ghetti non è una soluzione abitativa accettabile», dice Sagnet, «e nessuno è contrario agli sgomberi. I luoghi dove sorgono le baracche diventano zone franche di lavoro nero, si infiltra facilmente la criminalità organizzata. La presenza dei caporali all’interno dei ghetti, crea una rete di controllo della manodopera. Loro sì, si oppongono agli sgomberi, vogliono mantenere quel potere. Mentre noi sindacalisti, di fronte ai tavoli istituzionali, cerchiamo di ottenere un posto in cui ricollocare i ragazzi prima di procedere con la rimozione del ghetto. Altrimenti, come è successo a Metaponto, il rischio è che il problema si sposti semplicemente dall’altro lato della strada».
Guardando il documentario ci si chiede anche quanto siano presenti divergenze tra braccianti italiani e migranti sul luogo di lavoro e nelle rivendicazioni delle lotte. Sagnet racconta come «nelle aziende dove c’è un’effettiva presenza simultanea di braccianti italiani e migranti, la convivenza sia positiva»: un ulteriore elemento che ci aiuta a comprendere come il lavoro non si possa “rubare”, come racconta una certa retorica, ma piuttosto condividere da colleghi, e come le infinite complessità del lavoro nero siano invisibili a chi è estraneo al contesto. Sorgono spontanee, tutte quelle domande che invece posso aiutarci a mettere luce su questo mondo: come si costruisce uno sciopero? Come si può convincere una persona a rinunciare alla paga misera di una giornata che rappresenta il sostentamento di chi deve sopravvivere? Manifestare è pericoloso, essere schedati rende suscettibili ai ricatti legati all’ottenimento dei documenti o addirittura al rimpatrio.
«Nell’organizzazione degli scioperi, oltre ai fattori sociali più immediati, bisogna valutare anche la complessità culturale a cui si va incontro», racconta Sagnet. «Certo, c’è la necessità di portare a casa la giornata, ma non è neanche facile costruire una coscienza politica quando si dialoga con persone che si portano appresso una moltitudine di sfumature diverse per quanto riguarda lo sfondo sociale, educativo e culturale. Poi bisogna far fronte alla fame, creare campagne di sostegno alimentare per gli scioperanti. Per costruire le lotte sono necessarie tre cose: pazienza, determinazione e un piano su come muoversi».
Certo nel racconto biblico Cristo ha perso, è stato rinnegato, tradito, umiliato, eppure a distanza di duemila anni non solo ha cambiato il mondo, ma racconta una storia che a prescindere dal contesto religioso è rappresentativa di ideali e speranze sempre attuali. Alla fine anche il nostro Gesù, Yvan Sagnet, porta con sé vittorie e sconfitte, però ha cambiato la vita a delle persone e continuerà a sacrificarsi per loro, portando ogni giorno il regno dei cieli nella terra dura e variopinta che è la campagna italiana.
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