La fine delle ideologie novecentesche e dell’uomo plasmato sull’immagine di queste ultime ha permesso il dispiego di un diverso substrato culturale e la conseguente nascita di un nuovo individuo di riferimento. Come è facile immaginare, questo cambiamento ha apportato dei mutamenti totalizzanti nella società odierna. Mutamenti che crediamo sia utile andare a verificare nei singoli e specifici casi della natura umana, affinché sia chiara la deriva che l’essere umano ha intrapreso e continua a percorrere.
Il primo di questi casi è sicuramente quello più intimo e personale: quello psichico. Dal cosiddetto Homo reciprocans, costituito da una sostanziale capacità di interazione disinteressata con gli altri individui, si è passati all’homo oeconomicus. Un individuo votato e legato a un categorico mantra sociale ben definito: “io posso”. Un ordine interiore che assume, come ci suggeriscono i sociologi Chicchi e Simone, le caratteristiche “di un dovere, cioè di un obbligo morale ben diverso da quello che contraddistingue, per esempio, l’esistenza del typus melancholicus vincolata dall’-Io devo- che lo impegna a essere per l’Altro e a contribuire all’ordine e all’armonia nel proprio ambito sociale”. Un uomo, dunque, spettacolarizzato e che lega la considerazione di se stesso ai traguardi materiali raggiunti; avviluppato in una spirale protestantica che tende a distruggere gli ultimi riverberi della presenza idealistica e spiritualista nella sua esistenza si espone a rischi altissimi, data l’impossibilità umana a “vincere” senza soluzione di continuità, di “infarti psichici”.
Ovvero a dei veri e propri cortocircuiti di iper-responsabilizzazione personale che rendono l’uomo contemporaneo insoddisfatto e depresso e conseguentemente ricattato dal bisogno del consumo, unica valvola di sfogo all’insoddisfazione personale. Un cerchio perfetto in cui l’individuo in questione, dimentico della sua natura sociale, si affanna in una corsa inconcludente, funzionale, solo, al mantenimento dello status quo neo – liberale.
Quest’ultima considerazione ci fa addentrare nel secondo degli aspetti umani da prendere in esame per descrivere la degenerazione della società odierna, quello socio–economico. È evidente che per giungere a questo parossismo individualista così velocemente, la regia neoliberista ha avuto dalla sua strumenti mai posseduti prima dalla filosofia; l’insieme dei ritrovati tecnologici in campo mediatico e l’indirizzo unipolare della politica economica occidentale, è indubbio, che abbiano fatto miracoli.
La mistificazione della realtà quotidiana attraverso i media unita a una sovraesposizione valoriale derivante da figure di riferimento sempre più stereotipate e disumanizzanti sono stati il fulcro su cui incardinare la nascita della nuova società neo–liberale. Gli individui appartenenti a quest’ultimo insieme, dunque, si sono visti proporre una vita mitizzata, dove le possibilità sono infinite e si può essere ciò che si vuole. Ne consegue un appiattimento classista effimero, di certo non reale, che si continua a reggere sulle rate e gli interessi che servono a costruire il palcoscenico della propria inconsistente felicità. Questo disimpegno dalla sfera comunitaria, corroborata da una narrazione anche accademica mai così totalitaria, ha permesso una continua e quasi impercettibile distruzione delle conquiste sociali che le classi lavoratrici erano riuscite ad ottenere nel XX secolo.
È indubbio che sia da un punto di vista della spesa pubblica, sia da quello salariale, la disponibilità economica delle classi popolari occidentali si sia livellata sempre di più verso il basso. Questa oggettiva considerazione anche se può sembrare disfunzionale alle tesi fin qui esposte, è al contrario la leva con cui la filosofia neo liberale ha scardinato gli individui dalla propria realtà “animale”. L’uomo e più in generale la società occidentale odierna, essendo strozzati tra la loro visone atomistica e il bisogno di colmare vuoti esistenziali tramite la materia, rappresentano l’archetipo umano perfetto per il perpetuo proseguimento del ciclo capitalista, che è giusto ricordarlo, ha ancora di più accresciuto i propri guadagni dal crollo del costo del lavoro e dagli interessi che le masse hanno pagato per accaparrarsi l’inutile paccottiglia che le rende appagate. Un uomo inconsapevole della propria forza, accecato da orizzonti inarrivabili e incapace di vedersi e sentirsi organico a qualcosa di superiore a se stesso, è dunque il miglior viatico affinché, come ci ricorda Pasolini, si instauri irrimediabilmente quella legge che “del neocapitalismo, pare essere la caratteristica più cospicua: maggiore ricchezza là dove c’è ricchezza, maggiore miseria là dove c’è miseria.”
Questi gli aspetti economici della deriva neo liberale, affrontiamo ora quelli societari. Il neocapitalismo configurandosi come il più pervasivo e subdolo dei totalitarismi non lascia al caso alcun aspetto della vita umana. Del resto, soffermandosi a considerare i mutamenti della quotidianità occidentale degli ultimi decenni non si può riscontrare un mutamento antropologico totalizzante che ha portato la società verso una mondanità e un consumismo libidinale che hanno distrutto i tradizionali legami societari. Dietro il finto e ipocrita mito del progresso fine a se stesso, esasperato da una classe intellettuale asservita e funzionale allo status quo, si cela il perverso disegno, come ci ricorda l’eretico filosofo marxista Clouscard, di:
Esasperare il consumo dell’emancipazione-trasgressiva per raggiungere la crescita massima, instaurare il disordine immorale, dissolvere le istituzioni della nazione, affinché il funzionamento delle imprese divenga, a un tempo, infrastruttura e struttura, sola istanza produttrice della merce e dello stile del suo consumo, perché, infine, estetica, merce, etica siano una sola e unica cosa e regnino su individui massicciamente schizofrenici, abbandonati alle dispersioni trascendenti e alle partecipazioni panteistiche, del più fantastico spiegamento di mass-media, di giochi, di droghe e di feste.
Michel Clouscard
Insomma, un’enorme opera di distrazione di massa che permette l’indisturbato banchetto della grande finanza apolide. Si accennava poc’anzi al ruolo della classe intellettuale, quest’ultima per la prima volta si è massicciamente trovata schierata con l’ordine costituito, ha abdicato al suo ruolo critico, divenendo uno degli ingranaggi principali della pressa societaria che stritola l’occidente. Senza citare gli imbarazzanti nomi odierni che siamo soliti leggere quotidianamente, prestiamo attenzione a ciò che sempre Pasolini scriveva dei suoi colleghi cinquant’anni fa:
Finchè durerà [ed evidentemente sono ancora a tavola] questo banchetto, i proletari dovranno accontentarsi dei rimasugli delle pietanze preparate dagli intellettuali e gli intellettuali, per mangiare le loro pietanze, dovranno essere i cuochi dei capitalisti.
Pier Paolo Pasolini
Il lettore attento si sarà sicuramente accorto della mancanza di un tassello fondamentale in questa ingloriosa cavalcata nella contemporanea civiltà occidentale: la politica dov’è? Dov’è finito l’amore per la polis? Naturalmente anche l’assenza del potere e del confronto politico è funzionale al proseguimento dell’incubo liberista, anzi, è la conditio sine qua non per il suo naturale evolversi. Un altro marxista sui generis, Cornelius Castoriadis nel 1993 scriveva:
Ciò che colpisce di più, quando si compara la fase presente alle fasi precedenti della storia di queste società [occidentali], è la sparizione quasi totale del conflitto, sia che questo sia economico, politico o ideologico. Si assiste al trionfo di un immaginario: l’immaginario capitalista – liberale […] Sommariamente, si assiste alla dominazione integrale dell’immaginario capitalista: centralità dell’economia, espansione indefinita e apparentemente razionale della produzione, del consumo e dello svago più o meno pianificato e manipolato.
Cornelius Castoriadis
Come abbiamo visto, lo spazio lasciato vuoto dalla politica è stato scientemente riempito dall’economia e dalle sue degenerazioni filosofiche, lasciando l’uomo incapace di determinare il proprio avvenire. Ma cosa ha permesso questo disimpegno della politica dal suo fine? Ugo Spirito, filosofo attualista dà quella che ci sembra la risposta più azzeccata al quesito:
La spinta ideale del dopoguerra si è tutta raccolta nel mito della democrazia. La crisi e il disorientamento di carattere filosofico non sono apparsi che a pochi nella loro gravità. Una carica di fede evidente li ha fatti ignorare o dimenticare. Con la fine del fascismo si è riconquistato un vero ideale politico. Contro la dittatura risorgono la libertà e la democrazia […] la dittatura ha cancellato nel nostro paese la democrazia: basta, dunque, eliminare la dittatura e tornare al passato. Un opera di spugna, dunque, di estrema facilità ma anche di estrema ingenuità.
Ugo Spirito
Il tentativo di semplificare l’analisi storica del passato e la scommessa sul potenziale e autonomo apporto delle masse alla vita politica dell’occidente, dunque, hanno spianato la strada allo smembramento del potere politico, favorendo quello economico. La mancanza poi di una reale progettualità comune di indirizzo politico filosofico tra le forze antifasciste, ha fatto il resto. Difficile negare la mancanza di uno scopo politico ben definito per l’uomo e lo stato nel secondo dopoguerra, in che modo l’uno si interfaccia con l’altro e viceversa? Come e perché scegliere la strada dell’economia mista di stato e non quella più collettivista, piuttosto che quella liberale? Quale indirizzo dare alla scuola dopo la sconfitta dell’idealismo e la sua formazione umanista? Il sistema politico democratico ha lasciato tutte queste domande senza risposta, salvo rare ed eccezionali congiunture che si sono esaurite con l’esperienza personale dei singoli che le hanno incarnate, la “social-democrazia” europea ha lasciato la civiltà occidentale senza una programmazione organica del suo futuro. Individuare se questa sia stata una mancanza derivante da un’incapacità delle diverse classi dirigenti nazionali o una evidente commistione di queste ultime con il potere economico che voleva soppiantare quello politico non è compito di queste righe, sta di fatto che il risultato non cambia.
Si è giunti, dunque, a un disinteresse totale della popolazione per le problematiche politiche. Sempre Spirito afferma:
Il sintomo vero della crisi è proprio nel vuoto che comincia a determinarsi nelle coscienze dei più. L’interesse per la discussione politica va progressivamente attenuandosi e un sentimento di indifferenza più o meno profonda va diffondendosi dappertutto.
Ugo Spirito
L’ideatore della corporazione proprietaria raffigurava questo tipo di società nel 1963, ovvero parecchio tempo prima che fossero partorite le analisi utilizzate nella prima parte di questo articolo; con una lucidità disarmante ha descritto l’agonia di un sistema politico nato zoppo e impossibilitato a creare prospettive future per delle popolazioni che sarebbero state, di li a poco, investite dalla più vistosa e totalizzante campagna propagandistica della storia. Una pubblicità che ammalia da decenni le popolazioni occidentali e che gli ha completamente precluso la libertà di decidere autonomamente del proprio futuro. Questa apatia sociale e politica si mostra in tutta la sua preponderanza e perversione, se con un ultimo salto ci approcciamo agli ultimi anni appena trascorsi. L’ultimo decennio della storia occidentale ha infatti dimostrato l’assoluta incapacità delle masse di comprendere gli eventi che così duramente le hanno colpite.
Dall’inizio della crisi del 2008 è stato, infatti, inaugurato un nuovo corso politico-economico ancora più spregiudicato e pervasivo; con la scusa di dover superare crisi economiche congiunturali – che non finiscono mai – il sistema liberal – capitalista ha stretto, ancora di più, le maglie del controllo sulla sovranità economica dei singoli stati. Affinché, venendo meno gli ultimi simulacri di stato sociale presenti in occidente, si permetta ai privati di cannibalizzare totalmente l’entità statale speculando su sanità, previdenza sociale e pensionistica e istruzione. Le favolette dello spread e del debito pubblico, veri spauracchi degli ultimi anni, diventano la leva migliore per imporre, come ci ricordano Dardot e Laval, “le riforme nell’opinione pubblica come misure di salute pubblica” e non violenze inaccettabili.
Per concludere riportiamo le parole dell’introduzione alla prima traduzione italiana de“ Il capitalismo della seduzione” di Clouscard, di Marcello Concialdi, parole che risaltano chiare e purtroppo lapidarie:
In questa operazione analitica della società post sessantotto, [quella operata da Clouscard] nella quale la liberazione assume anzitutto la forma dello sradicamento morale, si trova questo costante atto d’accusa nei confronti di un sistema di sapere che con la sua seduzione ha illuso di fornire le chiavi per l’accesso all’utopia del godimento, della felicità e del benessere perpetuo in una società pacificata, mentre forniva, invece, sottobanco e con la complicità del carceriere, le catene del giogo del pensiero unico capitalistico.
Marcello Concialdi