Non è l’emergenza che mina la democrazia Il pericolo è l’eccezione

di Gustavo Zagrebelsky
A queste proposizioni mettiamo un punto interrogativo e cerchiamo di ragionare per tentare qualche risposta.
Certamente viviamo in “stato d’emergenza” ma, sebbene usate come equivalenti, eccezione ed emergenza non sono la stessa cosa. Il grido: “emergenza!” significa qualcosa come l’SOS nelle comunicazioni marittime: segnalazione di una situazione di pericolo che richiede interventi urgenti. La caratteristica dell’emergenza è precisamente l’urgenza: fate presto! Ma i provvedimenti urgenti, di per sé, possono essere perfettamente normali, ordinari, previsti e regolati: i salvataggi in mare sono da secoli all’ordine del giorno della civiltà e del diritto; non sono, anzi non devono essere “eccezioni”. Il servizio benemerito dei vigili del fuoco — altro esempio — è istituito, cioè è “una istituzione” per far fronte istituzionalmente alle “emergenze incendi”.
Che oggi si sia di fronte a un’emergenza sanitaria a me pare indubitabile. Coloro che ne dubitano, o addirittura la negano, forse sono sotto un’influenza preconcetta. Come il don Ferrante della peste di Milano del 1630 intossicato da Aristotele, come oggi altri sono intossicati da altre sostanze filosofiche post-moderne. Ci aprono gli occhi non tanto i numeri e le statistiche, quanto l’esperienza diretta di cui raccontano medici e infermieri che parlano dei contagi, delle conseguenze sull’apparato respiratorio, delle strutture della terapia intensiva “in emergenza”, chiamate a salvare vite in pericolo. Noi stessi, spesso, siamo stati e siamo testimoni, sulla nostra pelle o su quella di congiunti, amici, conoscenti. I “negazionisti” per principio sono come i credenti d’una religione o di una setta che non oscillano di fronte alle smentite della realtà. La fede non ha a che vedere con i fatti, così come i fatti non hanno a che vedere con le fedi. Di fronte ai fatti, dicono che non sono attendibili, che li si deve saper leggere, che contano non i fatti, ma l’uso che qualcuno ne fa per propri interessi e disegni politici. Dicono, per esempio, che i numeri, fatte le debite proporzioni sulle popolazioni interessate dal virus, non sono più elevati, anzi lo sono meno, dei numeri di ammalati e morti per altre malattie rispetto ai quali non esiste altrettanto allarme. Ma, così si ignora che nel nostro caso siamo in presenza di un’infezione altamente e facilmente trasmissibile. Oppure, si dice che la gran parte dei decessi riguarda persone anziane e affette da altre patologie. E con ciò? Forse l’infezione ha dato loro il colpo di grazia e, senza, sarebbero ancora vivi: ammalati ma vivi, e forse che la vita di un vecchio e ammalato vale poco o niente e non c’è da preoccuparsi?
Che, poi, ci siano oscure manovre messe in opera da qualche subdolo potentato economico-politico, interessato a spaventare e comprimere diritti e libertà, si può anche ammettere per ipotesi, ma ciò sposta forse anche solo di un millimetro la realtà della minaccia e rende meno giustificato l’attuale SOS sanitario? E, se ci fossero, il miglior modo di contrastarle, non sarebbe precisamente cercare di privarle del loro pungiglione, cercare cioè di sconfiggere l’infezione con efficaci misure d’emergenza?
L’emergenza non è l’eccezione e l’eccezione non è il grado ultimo dell’emergenza. Sono due cose diverse, anche se spesso trattate come se fossero una cosa sola. All’emergenza si ricorre per rientrare quanto più presto è possibile nella normalità (salvare i naufraghi, spegnere l’incendio). All’eccezione si ricorre invece per infrangere la regola e imporre un nuovo ordine. Si impone anch’essa in momenti perturbati ma, a differenza dell’emergenza, non mira alla stabilità del vecchio ordine. Tutte le trasformazioni che non si effettuano attraverso traumi come i ribaltamenti e le rivoluzioni passano attraverso fasi intermedie costellate da eccezioni che poi, sommandosi e combinandosi, si consolidano in qualcosa (un regime politico, una situazione sociale) di nuovo.
Forse un modo chiaro per sottolineare la differenza tra emergenza ed eccezione è dire così: l’emergenza è conservativa, l’eccezione è rinnovativa (indipendentemente dal fatto che il nuovo sia bene o male, desiderabile o detestabile). Un altro è dire che lo stato d’emergenza presuppone la stabilità d’un sistema che mette in campo il proprio sistema difensivo, immunitario; lo stato d’eccezione, al contrario, presuppone il disfacimento d’un sistema che apre la strada o, addirittura, invoca il passaggio a un sistema diverso. Poiché questa distinzione può suscitare perplessità, è forse opportuno aggiungere, per sottolineare la differenza: invoco lo stato d’emergenza perché desidero poter ritornare alla normalità, ma invoco lo stato d’eccezione perché voglio travolgerla. È vero che l’eccezione, di per sé, “conferma la regola”, ma la somma di eccezioni episodiche la sfigura, la regola, fino a negarla. L’eccezione, come nel ‘600 fu teorizzata dagli scrittori schierati pro-assolutismo, non è sempre un “colpo di stato” o un “golpe”, come diciamo noi, ma può costruirsi per accumulo di “colpettini”, ciascuno giustificato per uscire in modo innovativo da una situazione straordinaria. In breve: siamo nel campo della straordinarietà, ma questa comprende due cose profondamente diverse, l’emergenza e l’eccezione.
Lo stato d’emergenza include esclusivamente i poteri finalizzati allo scopo predeterminato di rientrare nella normalità. Tali poteri non possono essere specificati tassativamente e preventivamente, poiché nemmeno le situazioni di emergenza sono prevedibili con esattezza. E anche la durata dei poteri deve essere calibrata sulla durata della situazione che occorre riportare alla norma: “fino alla ripresa delle normali condizioni di vita” (come dice la legge). Contrariamente a ciò che spesso si pensa, i poteri d’emergenza sono i meno “politici”; se bene intesi, non lo sono affatto, poiché essendo “conservativi” non possono decidere sui propri fini, decisione che viceversa riguarda la dimensione politica del potere. Si potrebbe perfino dire che la gestione dell’emergenza è questione tecnico-amministrativa. Come tale, deve basarsi su evidenze fattuali, oggettive. Se queste esis tono e sono unanimemente accettate dalla cosiddetta “comunità scientifica”, la discrezionalità di chi gestisce l’emergenza è nulla. Se, invece, dalla comunità scientifica provengono voci discordanti, al gestore spetta decidere a chi dare più o meno credito. Deve correre un azzardo, un azzardo non però rimesso al caso, alla buona o alla cattiva sorte, ma pur sempre ancorato a valutazioni tecnico-scientifiche. Mentre gli scienziati e i tecnici parlano a partire dalla loro condizione di responsabilità rispetto alle conoscenze, ma d’irresponsabilità rispetto ai risultati, la responsabilità rispetto a questi ultimi ricadrà tutt’intera su chi, la situazione d’emergenza, la deve gestire e portare in porto. Non certo esercitando i cosiddetti “pieni poteri”.
Lo stato d’eccezione, invece, comprende poteri indeterminati, liberi nei fini e nei mezzi e, quindi, è compatibile con i “pieni poteri”. Anzi, i pieni poteri sono congeniali allo stato d’eccezione che comprende la sospensione a tempo indeterminato dei diritti, la concentrazione del potere e la soppressione dei poteri di controllo. Mano libera, insomma: il sogno d’ogni dittatura, in vista della stabilizzazione di un nuovo regime che può essere tanto una gabbia d’acciaio burocratica quanto il regno del capriccio di chi dispone dello Stato d’eccezione, cioè del “sovrano” (secondo un celeberrimo aforisma ben noto ai costituzionalisti). I momenti critici non possono mai mancare e saranno affrontati con strumenti d’emergenza per ripristinare la gabbia, oppure con poteri d’eccezione per costruirne una più solida, attraverso i progressivi “giri di vite” che caratterizzano i regimi dittatoriali.
A quest’ultimo proposito vi è chi, non senza buoni argomenti, sostiene che, a prescindere dal virus, il mondo intero vive comunque, più o meno stabilmente, in stato d’eccezione; che il sistema economico-sociale del capitalismo finanziario è selvaggio ed è incapace di affrontare le sue crisi con l’uso dell’apparato non solo dello “stato di diritto”, ma anche con i suoi stessi strumenti correttivi ordinari. Incapacità di fronte a quello che eufemisticamente si chiama “il disagio sociale” che quel sistema produce esso stesso “sistematicamente”. Onde, la constatazione che l’eccezione è e sarà la norma, non essendo concepibile, dall’interno di tale sistema, il ripristino dei sacri principi del costituzionalismo. Essi implicherebbero il crollo d’un sistema che non controlla più i presupposti di legittimità su cui finora, bene o male, s’è retto e, per sopravvivere, deve abbandonare perfino il rispetto esteriore dei diritti fondamentali e della separazione dei poteri. L’abolizione dei primi e la concentrazione dei secondi saranno — si dice — il destino del mondo che fa suo, come super-norma costituzionale, il motto: “non ci sono alternative”. Possiamo ammettere questa traiettoria come ipotesi non certo irrealistica, per un tempo a venire che non sappiamo se sarà più o meno lungo. Possiamo anche ammettere l’infezione pandemica del virus che tiene in scacco intere società sia una coincidenza e un’opportunità imprevista, da cogliere per tenere sotto controllo il popolo dei sottomessi. Ma, allora, non dovremmo concludere che i veri eroi della guerra contro le menzogne di quel potere oppressivo che oggi la filosofia post-moderna chiama “potere bio-politico” alleato al potere finanziario globalizzato, non sono i negazionisti dell’infezione, ma sono i medici e gli infermieri che combattendo la malattia tolgono forza a chi vuole o volesse usarla come arma per le politiche da stato d’eccezione?
(Questo articolo è un estratto del saggio scritto per Editori Laterza e che farà parte del volume “Il mondo dopo la fine del mondo” in uscita a ottobre)
www.repubblica.it