Alcuni scrittori sono considerati maledetti perché sono scrittori, a differenza degli altri. È il caso di Richard Millet, fra i maggiori scrittori francesi contemporanei, autore del controverso Elogio letterario di Anders Breivikun suo saggio minore, e di molte altre opere, fra romanzi e racconti e saggi e diari, purtroppo in gran parte inedite in Italia. Qualche anno fa volli scriverne un elogio, Elogio bellico di Richard Millet, che poi uscì su Nazione Indiana. Dopo la morte di Pierre-Guillaume de Roux, che di Millet è stato editore e amico, e dietro suggerimento di Davide Brullo (e pensando al silenzio e alla censura che da tempo circondano Millet), mi sono deciso a fare qualche chiacchiera “pubblica” con lui, per i suoi lettori italiani. Questo è il risultato del nostro scambio. (Edoardo Pisani)

Quest’anno è morto Pierre-Guillaume de Roux, uno dei suoi principali editori. Era una figura unica nel mondo letterario francese, editore di una delle sue opere più conosciute all’estero, quel maledetto Elogio letterario di Anders Breivik che le ha causato tanti problemi. Crede che una personalità come Pierre-Guillaume de Roux (o come suo padre Dominique, che intervistava Gombrowicz in Testamento) sia ancora possibile nella Francia di oggi? Uno “spirito libero” (così Le Figaro ha definito de Roux alla sua morte) ha ancora una possibilità di esistenza nel mondo culturale francese? Qual è la sua situazione attuale, in quanto scrittore libero?

La morte di P.G. de Roux ha qualcosa di simbolico. Questo genere di editore generalista che non si colloca nel “mainstream” editoriale (vale a dire sottomesso ai diktat del politicamente corretto americano) sembra ormai divenuto impossibile, in Francia. Suo padre, a sua volta editore e scrittore, aveva già dovuto fuggire il mondo letterario parigino negli anni Settanta, dove era divenuto una specie di paria per essersi preso gioco di Roland Barthes, di Michel Foucault, di vari accademici… La morte di P.G. de Roux lascia molti autori orfani, fra cui me, perché non ho più editore, salvo per uno o due saggi pubblicati in piccolissime case editrici ancora libere. D’ora in poi infatti mi pubblicherò da solo, a un centinaio di copie, essendo morto economicamente, come aveva deciso nel 2012 la sinistra culturale che regna nel mondo mediatico-letterario e che continua naturalmente a cianciare di libertà, di tolleranza, pubblicando autori come Cesare Battisti, i falsi ribelli, la gauche caviar, i fanatici del “woke leftism”, eccetera.

Il suo Elogio letterario di Anders Breivik fece scandalo, così L’antirazzismo come terrore letterario. Non crede che questi pamphlet mettano in ombra, soprattutto all’estero, la parte più interessante della sua opera, cioè i romanzi, ancora inediti in Italia? È forse impossibile capire e apprezzare davvero L’inferno del romanzo e Disincanto della letteratura senza conoscere Pascal Bugeaud, il suo alter ego letterario, senza aver letto (e dunque vissuto) la sua infanzia in Ma vie parmi les ombres o la guerra del Libano in La confession négative. Crede di essere ben letto in Francia, nel mondo culturale? E all’estero?

Ha ragione: i miei pamphlet hanno finito per fare ombra ai miei romanzi e ai miei altri saggi, benché io non separi, letterariamente, i pamphlet dal resto: mi richiedono lo stesso lavoro. Oggi non mi si legge quasi più, né i romanzi né i pamphlet: non sono relegato né a Lipari né in Siberia, ma in una zona in cui i miei testi non sono recensiti dalla stampa ufficiale – ossia da tutta la stampa francese. Non leggermi è un atto di guerra. Sono tradotto pochissimo all’estero, solamente i pamphlet e qualche saggio in Italia e in Germania. Due anni fa avevo incaricato un agente letterario di presentare un mio romanzo ai maggiori editori parigini: tutti, nessuno escluso, hanno rifiutato di pubblicarmi. Avevo bisogno di questa conferma “storica”. La guerra dunque non cessa. Mi accompagna dalla mia infanzia libanese, e non deporrò mai le armi.

“Non abbiamo più bisogno di romanzi: basta con i romanzi. Fine di questo genere. Fine di una lingua in cui vivere e morire. Questo racconto e nient’altro, prima della notte”. È un brano di Province, uno dei suoi ultimi romanzi. Crede che il genere letterario romanzesco sia davvero al termine? Di più: pensa che la lingua francese, che, come sanno i suoi lettori, è la patria del suo cuore e della sua arte, sarà un giorno una lingua morta? Qual è il destino della sua opera romanzesca?

Credo che il romanzo sia stanco delle ricette del XIX secolo. Il genere è esausto da tempo: siamo alla copia della copia, e l’autocensura regna. Ci sono sempre meno veri lettori, peraltro – gli altri desiderano soltanto dei “romanzi internazionali”, come Elena Ferrante se non peggio, dei romanzi che sembrano scritti da un software di traduzione simultanea. In Francia la lingua francese è insegnata male e mal conosciuta dagli stessi scrittori, e come tutte le altre lingue è infestata dall’inglese internazionale, prostituita all’ideologia mondialista. Il francese come lingua morta? Sì, nel senso culturale, all’estero come in Francia. Non si sa quasi più leggerla né scriverla. Siamo gli ultimi a saperlo fare, anche se quest’agonia può durare ancora due o tre decenni.

Una domanda sull’Italia. Ricordo, visitandola a Parigi qualche anno fa (nello stesso quartiere periferico di Lauve le pur, altro suo romanzo inedito in Italia), che lei ha un’ottima conoscenza della letteratura italiana. Difatti è uno dei rari lettori di Guido Ceronetti, che cita in apertura de L’Orient désert. Cita anche Malaparte, ne La confession négative. Quali sono i suoi autori italiani preferiti? E qual è il suo rapporto con l’Italia? Mi raccontava di aver visitato la tomba di Keats, al cimitero degli artisti di Roma, in gioventù…

Ho con l’Italia un rapporto privilegiato, sebbene non ci sia ritornato dal 1981. Mio padre lavorava, negli anni Sessanta, in Libano, per una società italiana di lavori pubblici: l’Italia dunque è stata presente molto presto nella mia vita, con svariati soggiorni a Roma. La pittura, la musica (specie di Gesualdo da Venosa, su cui ho scritto un libretto d’opera per Marc-André Dalbavie, fino a Dallapiccola, Nono, Berio, etc), il cinema (Antonioni per me è stato importante quanto Georges Bataille) e la letteratura, che non cesso di leggere e rileggere: Dante, Leopardi, Pirandello, le Lettere dal carcere di Gramsci, Pavese, Malaparte, Bassani, Lampedusa, Praz, Pasolini, Cristina Campo, Calvino, Zanzotto, Saba, Manganelli, Ceronetti, Calasso, Magris, Agamben, e anche quella meravigliosa poetessa che lei mi ha fatto conoscere: Amelia Rosselli.

(Commosso, perché anni fa portai a Richard Millet una traduzione francese de La libellula, poema per me fondamentale, poco conosciuto in Francia). E a cosa lavora in questo momento?

Metto a punto il quarto volume del mio Diario, ignorando se sarà o no pubblicato. E soprattutto lavoro all’autobiografia dei primi vent’anni della mia vita: un testo apparentemente senza fine, ma che dovrò decidermi a concludere. Sarà forse il mio ultimo libro.

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Ecco, l’intervista è finita. Spero che i lettori italiani di Millet la apprezzino, e che magari qualche nuovo lettore si incuriosisca. Quanto a me, mi tornano in mente – come commiato – delle righe di Un sermon sur la mort, magnifico libriccino di Millet (edito in Francia da Fata Morgana): “Divenite soli come lo sono io, ossia capaci di uscire dalla grande notte del linguaggio e dell’anima, dalle tenebre del senno e della disperazione. Uscite dai pozzi di quest’epoca per vestirvi di luce ed entrare nel tempo cantato, cioè nella speranza”.