Dicerie degli untori
La Francia, dice Macron nell’introdurre il suo pass sanitario obbligatorio, “è la patria della scienza, di Louis Pasteur, dell’illuminismo”. Dall’altra parte del Reno, però, qualcuno avrebbe ribattuto: “abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza, questo è il motto dell’illuminismo”. Difficile, ad occhio e croce, conciliare l’appello di Kant con questo esercizio di potere disciplinare, paternalistico, deciso a salvare il popolo da se stesso. Eppure fra il sobrio pensatore di Königsberg e il napoleonico presidente francese è proprio quest’ultimo ad aver intuito cos’è davvero, al netto delle illusioni settecentesche, l’illuminismo. Cioè un arsenale di strumenti apologetici che il potere, nella persona del golpista Bonaparte, sapeva già maneggiare benissimo il 18 Brumaio 1799, anno ottavo della Rivoluzione, e da lì in poi sempre meglio. Ed è la tesi di Adorno e Horkheimer che l’illuminismo non sappia criticare se stesso, ovvero non si pensi mai illuministicamente: a un certo punto esiste solo per conservarsi, e l’ansia di autoconservazione – rozza, cattiva, paranoica – è il sentimento dominante degli ultimi due anni, un po’ ovunque.
Adesso che il green pass obbligatorio sta per arrivare anche in Italia, il momento è buono per ascoltare voci dall’opposizione – la più interessante è quella di Giorgio Agamben. Agamben ha un grosso difetto: è più intelligente di chi fa l’intelligente di mestiere, e dunque si è beccato una raffica di insulti sui giornali. Nonostante abbia detto – potete leggerlo qui – cose cristalline, cioè che la pandemia è uno stato d’eccezione e i limiti dello stato d’eccezione sono decisi dal potere. L’idea del virus come costrutto sociale sembra offendere due categorie di persone: quelli che si sono persi il post-strutturalismo mentre facevano altro; e quelli, intellettuali di sinistra qualunque cosa voglia dire, per cui il post-strutturalismo va bene quando conviene – il poco che hanno capito di Judith Butler, per dire, nelle faccende di genere – ma non con le cose serie. E insomma, Agamben “farnetica”, secondo tanti, solo perché ripete Foucault dopo quarant’anni, e ricorda che il potere produce il sapere e non viceversa.
Ma c’è, in effetti, qualcosa di grossolano a inceppare ogni tanto gli ingranaggi del discorso di Agamben: la separazione concettuale fra un potere istituzionale e la società che lo subisce. Questa differenza scompare appena si guardano gli eventi da lontano. Il mondo prima della pandemia, quello delle libertà, era uguale al mondo della pandemia e della costrizione. Allora come adesso, il potere non proveniva dall’alto, ma da tutte le parti. Anche allora, il potere governava su un’ansia di morte: il paradigma securitario della lotta al terrorismo, o le misure d’austerity, servivano a placarla come la politica sanitaria. Ma serviva allo stesso fine anche il “desiderio dell’altro” – Lacan – tutta la giovinezza di mercato dell’industria culturale, del turismo, dell’istruzione, dell’attivismo sociale. Lo stesso potere, che vediamo esplicitato nelle forme autoritarie della quarantena, stava, identico, in tutte le relazioni umane. Agamben parla di “tramonto delle democrazie borghesi” come se esistesse un modo di governo, distinto agli altri, da chiamarsi “democrazia borghese”: ma il tempo della borghesia, cioè la modernità, porta in sé il superamento di categorie come democrazia e assolutismo. Vivevamo già nell’unico modo di vivere possibile: la pandemia ha rivelato che quel modo di vivere necessariamente includeva la propria negazione, e così si è chiuso il cerchio. L’errore che mi sembra di leggere in Agamben è un errore di ottimismo: la convinzione che ci fosse qualcosa da salvare nel mondo di prima, che questo qualcosa stia ancora, a soffocare, sotto la cappa del potere, “l’ingovernabile pace” oltre l’iperattività dei governi. Ma no, non c’è niente.
Nel discorso giornalistico, il no-vax è diventato una specie di canone delle proibizioni: il compendio di quello che non bisogna essere. Emanuele Trevi dipinge questo tipo umano verdoniano di praticante di yoga che “cova un sordo rancore nei confronti della scienza”. Ora, se Trevi, invece di fidarsi della scienza – essenza della democrazia, dice – sapesse come funziona la scienza, si renderebbe conto che quelli che si vaccinano e quelli che non si vaccinano stanno applicando lo stesso strumento epistemologico, ovvero un’inferenza bayesiana. Esclusi i pochissimi che hanno studiato i dati, peraltro ancora in corso di produzione, chiunque attribuisce una probabilità a priori alle due alternative: il vaccino funziona, oppure no. La seconda è più complessa, ha ulteriori elementi da giustificare – e dunque la scelta di vaccinarsi è giustificata molto più da Occam che da Galileo. E, del resto, quando il Cnr autorizzava a “condurre una vita assolutamente normale” l’argomento della fiducia – mal riposta, vista la catastrofe successiva – valeva quanto adesso, cioè niente.
Ma non conta, perché tutti pretendono che la differenza sia radicale. La differenza clinica tra malati e sani si sovrappone alle tassonomie precedenti, “cretini tendenzialmente fascisti” contro brave persone. Diverte come l’articolo di Trevi, una volta scoperta l’inconsistenza delle etichette, si risolva in un atto di fede: quelli là non sono evidentemente mostruosi ma serve un’autorità che li qualifichi come tali. Il percorso che conduce fin qui sarebbe inquietante, se non lo conoscessimo benissimo: è la vecchia storia di Foucault che rovescia Clausewitz, scoprendo che la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Serve a perpetuare asimmetrie, distinguere le razze se rischiano di assomigliarsi. Quando mai siamo stati sani, invece? In base a questo fraintendimento litiga chi denuncia la “dittatura sanitaria” con chi “si fida”: non c’è nessuna dittatura, si attiva soltanto un’antica medicalizzazione della vita che è sempre stata qui. Abbiamo scoperto il recinto del sanatorio, ma non che prima abitassimo fuori: una grande esperienza metaletteraria. La descrizione perfetta si trova ne La montagna incantata, che è appunto un sanatorio:
“Il singolo può avere di mira parecchi fini, mete, speranze, previsioni […], se l’epoca stessa, […] è in fondo priva di speranze e prospettive, se furtivamente gli si rivela disperata, vana, disorientata e al quesito formulato […] di un ultimo significato, ultrapersonale, assoluto, di ogni fatica e attività, oppone un vacuo silenzio, […] sarà quasi inevitabile un’azione paralizzante di questo stato di cose, la quale, passando attraverso il senso morale psichico, finisce con l’estendersi addirittura alla parte fisica e organica dell’individuo”.
Thomas Mann
Impera uno sguardo clinico, che riduce tutto al corpo, ma è uno sguardo emerso da dentro, e abita ormai lo specchio. Le domande proseguono: abbiamo mai avuto più vita di così? Andare o restare, prima che fosse proibito, faceva differenza? La pandemia è, dopotutto, l’effetto nocebo di un’epoca malata di salute, senza lessico per la malattia e la morte. Gli infermieri frenano “il disastro del respiro” – le immagini di Milo De Angelis – mentre “sotto l’oceano non ci sono eventi irreparabili”, c’è l’assoluto perso in questo minuscolo esercizio di sopravvivenza. Si spiega, allora, la violenza comune a pro-vax e no-vax: gli uni convinti da una salute appaltata alla politica, all’industria farmaceutica, agli esperti; gli altri che hanno la salute come fulcro della loro sindrome dell’assedio, minacciata perennemente dal mondo esterno. Si assomigliano, conoscono le stesse preghiere, e in fondo vogliono le stesse cose. Sepolto dall’affastellamento dei flaconi, ammutolito dal discorso sugli elisir, a scavare sul fondo, si trova infine l’umano plasmato dalla prossimità con la morte, la madre di Cecilia – “verso sera, salirete a prendere anche me”. Una parola onesta dal ciglio, l’unica che si oppone al centro assoluto “che ci vuole vivi e basta”. La Diceria dell’untore:
“Abituarsi a guardare la vita come una cosa d’altri, rubata per scherzo, da restituire domani. Convincersi ch’è uno sbaraglio per temerari, che la precauzione suprema è morire”.
Gesualdo Bufalino