Parla la donna che ha denunciato: «I genitori dovrebbero controllare. È inaccettabile che oscenità simili vengano diffuse da ragazzini»
DALL’INVIATA A SIENA. «Dirle che mi è crollato il mondo addosso non rende l’idea. Ero sconvolta dai due video pedopornografici, e lo ero ancora di più perché si trovavano sul telefonino di mio figlio tredicenne». Veronica parla con tono calmo e gentile, tradisce l’emozione solo dal modo in cui stringe la tazza di tè. Le dita delle mani sono quasi cianotiche per la tensione. Il suo nome è ovviamente di fantasia, mentre l’inferno che racconta è tutto reale. È lei la mamma che, a differenza delle altre, ha avuto il coraggio di denunciare tutto ai carabinieri del Reparto operativo di Siena. E ora rievoca quei momenti con lucidità e sollievo.
Quando è cominciato tutto?
«Lo scorso aprile. Ricordo quel pomeriggio con una precisione certosina. Da una decina di giorni non esaminavo il telefonino di Luigi (anche questo nome è fasullo, ndr). Avevo il pin perché con mio figlio c’è un rapporto di fiducia. È un accordo tra di noi: Luigi sa che può tenere il cellulare solo a patto che io lo possa controllare».
Perché?
«Perché il telefonino in mano a un minorenne può diventare una pistola che un ragazzino non è in grado di gestire in modo adeguato».
Quel pomeriggio che cosa ha scoperto?
«Ha attirato subito la mia attenzione una chat, per via del nome, “The shoah party”. Mi sembrava offensiva, e così l’ho aperta. E lì è incominciata la discesa nei gironi dell’inferno».Per i video pedopornografici?
«Innanzitutto per quelli, certo. In uno ho visto due bambini, sotto i 10 anni, che avevano un rapporto omosessuale. Nell’altro un incontro a tre tra due maschietti di circa 10 anni e una bambina coetanea. Le immagini erano indescrivibili, mi creda. Non ci sono davvero parole adeguate per rendere l’orrore».
Ma c’erano anche foto o video inneggianti Hitler, Mussolini o i terroristi islamici?
«Sì c’era un po’ di tutto. Era tutta una violenza, un sopruso, una dominazione fisica e psicologica sul prossimo. Si trattasse di ebrei, malati, bambini».
Molti insulti quindi?
«Tantissimi. Basti dirle che ogni messaggio si apriva con una bestemmia».
E suo figlio come ha reagito? Come si è giustificato?
«Mi ha spiegato che era stato contattato via whatsapp da alcuni sconosciuti i quali lo avevano invitato ad entrare nella loro chat».
E perché ha accettato?
«Mi ha riferito di averlo fatto perché quelle pressanti e continue richieste gli impallavano il cellulare e lui non poteva più usarlo per i giochi. Così mi ha detto, che non riusciva più a giocare con il telefonino e quindi ha acconsentito di entrare nella chat».
Suo figlio non è rimasto turbato da quelle immagini e da quegli slogan che istigavano alla violenza e al razzismo?
«Mi ha raccontato di aver aperto solo i primi due video che gli sono arrivati e di aver poi archiviato gli altri. Per lui era finita lì, tant’è che, pur sapendo che io ogni tanto, senza preavviso, gli monitoro il telefonino, non ha cancellato nulla. Inoltre lui non ha mai scritto niente e non appena io ho individuato la chat si è cancellato».
Lei aveva notato nella chat la presenza di alcuni compagni di scuola?
«Ne ho riconosciuti tre, ma non so se ve ne fossero altri».
E cosa ha fatto, prima di rivolgersi ai carabinieri?
«Ho scritto alle altre mamme nella chat di classe, avvertendole che su whatsapp giravano foto violente, razziste è pedopornografiche».
Che cosa le hanno risposto?
«Sono state molto fredde, indifferenti. Qualcuna ha ringraziato, qualcun’altra ha replicato che suo figlio non faceva quelle così lì e la discussione non è andata avanti».
Ma poi ha avuto occasione di confrontarsi con le mamme dei tre compagni riconosciuti in chat sulla necessità di rivolgersi alle forze dell’ordine?
«Nessuno ha voluto denunciare. Non so se per vergogna o cos’altro. Mio figlio in questa vicenda risulta un testimone, non è indagato. Ma io comunque non mi sarei fermata in ogni caso. Non solo perché ritengo che sia un dovere civile sporgere denuncia, ma anche perché non si può accettare che dei ragazzini divulghino oscenità e appelli in nome di Hitler o della Jihad. È assolutamente inconcepibile».
Eppure è drammaticamente successo.
«Infatti. Non so in che modo abbiano agito i giovani amministratori della chat e con quale assurdo passaparola quello scempio sia arrivato sul telefonino di mio figlio. Per fortuna la giustizia sta facendo il suo corso, ma credo sia molto importante la questione socio-culturale, il rapporto genitori-figli».
I ragazzini della chat appartengono a una classe sociale medio alta, hanno genitori laureati e liberi professionisti. Che cosa non ha funzionato secondo lei?
«Non mi permetto di guardare in casa d’altri. Ma i genitori devono fare i genitori e controllare i propri ragazzi».
Siena
Video pedopornografici, inni al nazismo e razzismo, immagini scioccanti su un gruppo Whatsapp. Coinvolti tre minorenni senesi
SIENA Tutto è cominciato con un dialogo preoccupato tra due genitori all’uscita della scuola. «Ho visto dei video sul cellulare di mio figlio terribili, inquietanti, violenti» confessa una mamma a un altro genitore. Da lì parte il consiglio di denunciare tutto ai carabinieri e la signora dimostra un coraggio che non è da tutti; si presenta alla caserma di viale Bracci, mostra quel gruppo Whatsapp e spalanca davanti ai militari un abisso di orrori, violenze, razzismi, apologie di nazismo e pedopornografia senza limiti. E’ partita così l’Operazione Delirio. Un gruppo whatsapp, una chat battezzata ‘The shoah party’, video di una ragazza di 11 anni che fa sesso con due minorenni, un adulto che abusa una bambina di un anno, sevizie su galline e cani, inni a Hitler, Mussolini, Bin Laden. E poi ancora, gli ostaggi sgozzati da Jihad John, che nessuno ha mai diffuso in rete, le foto di Auschwitz con commenti irriferibili, insulti a bambini africani, a malati di leucemia, ai disabili, ai migranti. Tutti video e post monitorati da due carabinieri di Siena, che si sono introfulati nel gruppo da giugno grazie a un falso profilo con un’immagine trash che fungesse da esca, creato anche su Instagram, e per mesi hanno assistito impotenti a quella galleria degli orrori senza fine. L’altro ieri sera sono state effettuate 25 perquisizioni a carico di tutti gli indagati, e sono stati sequestrati decine di computer e telefonini, oltre a chiavette con i video incriminati. Tutta l’inchiesta è stata condotta con la procura distrettuale di Firenze, con il pm Cutrignelli che ha emesso i decreti di perquisizione, e la procura per i minorenni, coordinata dal procuratore Antonio Sangermano. I reati ipotizzati sono pedopornografia e apologia di nazismo e razzismo. Tre indagati sono di Siena, tutti minorenni. Incensurati, figli di professionisti, di buona famiglia. Come gli altri, dislocati in 13 province. Il cuore di quel gruppo dell’orrore era a Rivoli, dalle parti di Torino. Li ci sono 8 ragazzi indagati, compresi i due maggiorenni che erano gli amministratori del gruppo whatsapp. Uno sarebbe uno studente del Politecnico, ma anche gli altri vanno a scuola o all’università. Ma sono pochissimi, visto che il più grande tra gli indagati avrebbe 19 anni. Dalla Val d’Aosta alla Calabria, passando per i 5 indagati nel Lazio (2 a Roma e 3 a Frosinone), e poi in Veneto, in Lombardia (2 ragazzi di Cantù) e in Emilia, Puglia, Campania. Le indagini continuano, così come la visione del materiale sequestrato. Quello che c’era nelle schede dei cellulari e dei pc è stato consegnato a un consulente tecnico, un ingegnere di Firenze, che dovrà estrarre le copie forensi, ovvero materiale che possa rappresentare una prova in giudizio e che deve essere il più fedele possibile agli originali. Ci vorrà un mese per queste copie. Nel frattempo i ragazzi, indagati per reati pesanti, dovranno scegliere un avvocato o farselo scegliere dai genitori. Rischiano grosso, non solo i maggiorenni. Che ovviamente potrebbero essere anche arrestati. Ma per i minori l’inchiesta potrebbe essere una macchia nella fedina penale.