Quasi sessant’anni fa una giovane ragazza canadese decise di autopubblicare la sua prima silloge poetica stampandone a mano 220 copie. Sulla copertina disegnò due steli e due foglie, entrambe munite di occhi, a predire il ruolo vivo e centrale che la natura avrebbe avuto in tutta la sua produzione. Double Persephone (1961), questo il titolo, era un libriccino di 16 pagine in tutto, fu venduto a 50 centesimi a copia, e le valse l’E.J. Pratt Medal, prestigioso premio che ancora oggi l’Università di Toronto assegna ai suoi studenti poeti. Quella ragazza si chiamava Margaret Atwood, e cominciava così, con semplicità e vero talento, il suo lungo viaggio nel mondo della letteratura.
AUTRICE PROLIFICISSIMA di decine di libri di poesia, romanzi, saggi, storie per bambini, icona del femminismo e dell’ambientalismo, Atwood ci ha abituati, nel tempo, al suo sguardo preciso e insieme surreale, alla sua penna affilata, ironica, potente. Eppure non smette di sorprenderci. La raccolta di poesie Esercizi di potere, appena uscita per Nottetempo (pp. 153, euro 12) con la splendida traduzione di Silvia Bre, è un’occasione preziosa per approfondire la sua scrittura in versi, meno nota al pubblico italiano.
Esercizi di potere, pubblicato nel 1971, è senz’altro un libro simbolo di un’epoca, quella del femminismo, della messa in discussione dei rapporti di potere tra uomini e donne, ma come ogni grande scrittura non si limita a interpretare il proprio tempo: ne restituisce il passato e ne prefigura il futuro. Dal futuro leggiamo i versi di Atwood, dal futuro li sentiamo testimoni di una storia che ci riguarda, e che interroga il nostro presente: quello delle relazioni d’amore che abitiamo, con desiderio, conflitto, differenza. Il fulcro di Esercizi di potere è, infatti, la coppia come territorio di guerra: un corpo a corpo, una sfida, un agone fra due.
Accade che questi due siano un uomo e una donna, accade che su quest’uomo e questa donna agiscano fantasmi antichi, che prendono o perdono forza a seconda del momento. Accade che si amino, e si odino, e si accarezzino e vogliano distruggersi, e che l’uno si configuri come il soggetto dominante e l’altro come il soggetto dominato. Accade – e questo fa la differenza – che a raccontare di tutto ciò sia una donna.
«Al ristorante discutiamo/ su chi di noi pagherà il tuo funerale// sebbene la reale questione sia/ se io ti renderò sì o no immortale», scrive Atwood in una delle prime poesie della raccolta, chiarendo fin da subito che il compito spettato per secoli ai poeti – quello di eternare la donna amata – sia ora nelle mani di lei, di quell’altra.
PIÙ AVANTI, rincara la dose: «Ti prego muori ho detto/ così posso scriverne». La citazione è chiara, l’ironia feroce, chi scrive – la donna, soggetto imprevisto della storia, come pure della poesia – conosce perfettamente la Tradizione e il Canone, per questo può rovesciarli.
Se, dunque, Dante dichiarava esplicitamente l’ineluttabilità della morte della donna amata, configurando la lirica d’amore come lirica dell’assenza – «Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia» (Vita Nuova, XXIII) – che cosa farà dell’uomo amato la donna poeta?
Nel caso di Atwood, come di molte altre, la risposta è stata ed è: ne scriverà, decostruendo la tradizione precedente e inventandone una nuova, con competenza e sublime ironia. Operazione che non equivale affatto a una «liquidazione», piuttosto ad una riscrittura creativa e critica, che mentre confuta e rovescia il Canone, pure ne recupera e trasforma gli aspetti vitali.
«MI ACCOSTO a questo amore/ come una biologa/ infilandomi guanti/ di gomma & camice bianco» annuncia Atwood: eccolo il plurisecolare oggetto del desiderio, la donna da guardare e, eventualmente, lodare, che cambia di posto, e si mette i guanti, s’infila il camice, inforca gli occhiali. Adesso è lei che guarda, lei che percorre centimetro per centimetro il corpo dell’altro, lei che palpa, descrive, classifica, tassonomizza: «Come uova e lumache hai un guscio/ Sei esteso/ e nocivo al giardino/ arduo da estirpare», enuncia nella poesia intitolata Lui è uno strano fenomeno biologico. E continua: «prosperi nel fumo; sei senza/ clorofilla; ti sposti/ da un luogo a un altro come un malanno/ Come i funghi tu vivi negli armadi/ e spunti fuori solo nottetempo».
ALTRO CHE DONNA ANGELO, eternata perché morta, qui «Lui», l’amato, è vivo e infestante: un coacervo di virus e batteri, un parassita, un fungo, uno «strano fenomeno» da contrastare e mettere in versi, a futura memoria. Gli uomini deuteragonisti di Esercizi di potere sono di rado semplici «umani»: uno ha tre teste e sei occhi, l’altro «la faccia d’argento», «squamata come un pesce», uno è senza spina dorsale, e appena toccato si scioglie, l’altro è un «comandante di legno», troppo rigido per farsi carne. Benché l’incontro sia arduo, quando non impossibile, la fascinazione della poeta per queste strane creature differenti persiste. Il teatro di guerra è destinato a ripetersi. Del resto, a questo servono gli «esercizi di potere»: a misurarsi, a inseguirsi, a inchiodarsi, a vincere, a perdere. E a ricominciare ogni volta da capo.
INSOMMA, «NO WONDER» – «nessuna sorpresa» – scrive Atwood, se non fosse che qualcosa per spezzare questa bellicosa coazione a ripetere c’è. Per esempio, se «lui» si lasciasse toccare più a fondo, se acconsentisse a sentirsi esposto, se abdicasse a un po’ di potere…qualcosa di diverso accadrebbe. «Ti accarezzo lievemente e tu hai i brividi/ ti contrai, ritiri/ persino il contorno della pelle/ il piacere è ciò che prendi ma non accetti». E continua: «ti faccio scorrere la mano lungo/ il collo, sento il polso/ ti ritrai/ hai qualcosa nella gola che vuole/ uscire fuori e tu non lasci». A impedire all’altro di abbandonarsi c’è un punto inscalfibile di resistenza, una maglia serrata che non si lascia allentare. Come se davvero fosse (lo è ancora?) troppo difficile accettare il fatto che chi penetra è, sempre, anche penetrato. Come se si potesse ignorare che l’incontro col corpo di una donna, o di un uomo, ci rende – tutti – similmente friabili. Come se la posizione di chi entra – di chi deve «farsi largo» – possa (e debba) essere una posizione libera dall’angoscia della vulnerabilità, dell’apertura, dell’incontro profondo: «non si muove come amore, non/ vuole conoscere, non/ vuole accarezzare, dispiegarsi/ non vuole nemmeno/ toccare ti muovi/ dentro me come se io/ fossi (facendoti/ largo a strattoni, è cosa/ urgente, è la tua vita)/ l’ultima/ libertà possibile».
ATWOOD NON DÀ istruzioni su come uscire dal filo spinato degli «esercizi di potere». Dai loro meccanismi usurati, dalle logiche oppositive che li governano. Ma indica direzioni verso cui allargare lo sguardo, oltre le teste, oltre la piccola guerra fra due: «Considerando gli animali in sparizione/ il proliferare di fogne e di paure/ l’addensarsi del mare, l’aria/ prossima a estinguersi/ dovremmo essere gentili, dovremmo/ sentire l’allarme, dovremmo perdonarci/ Invece siamo contro, ci/ tocchiamo come chi aggredisce,/ i doni che portiamo/ persino in buona fede forse/ nelle nostre mani si deformano in/ dispositivi, in stratagemmi». Sono versi di cinquant’anni fa, che descrivono l’attuale – della coppia, e di tutte le relazioni – con precisa vividezza.
Non si tratta di fare appello ai buoni sentimenti, piuttosto di stare nella vita per quella è: fragile, breve, sempre più minacciata. Sapere questo, saperlo davvero, non ci renderà campioni di pace e di perdono. Ma forse ci aiuterà a guardare con più attenzione cosa abbiamo tra le mani, cosa offriamo all’altro, all’altra, e perché.
Soprattutto, ogni volta che amiamo, ci metterà davanti a una domanda scomoda e centrale: «Una verità dovrebbe esistere,/ non andrebbe usata/ così. Se ti amo/ questo è un fatto o un’arma?».
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