Nauman il maestro del lockdown

È l’artista americano dello spazio chiuso, dell’introspezione e della solitudine Le sue opere si addicono al tempo che stiamo vivendo Ecco il racconto della retrospettiva che gli dedica Londra in una Tate Modern rimasta senza pubblico
di Francesco Bonami
a prima cosa che salta all’occhio andando a visitare la mostra di Bruce Nauman alla Tate Modern di Londra (temporaneamente chiusa: video e gallery su www. tate. org. uk) è l’inquietante assenza di pubblico in un’architettura che – solo ora ce ne rendiamo conto – come tanti altri musei costruiti fra la fine del ventesimo secolo e gli inizi di questo, è stata pensata come contenitore di gente più che di mostre e di arte. Se si vanno a visitare i musei storici – la National Gallery o l’originaria Tate Britain, per fare solo due esempi a portata di mano – l’assenza di visitatori non fa così impressione, anzi ricrea un po’ il privilegio della cultura in solitaria. Ma alla Tate Modern l’assenza del brulichio dovuto alle masse fa veramente impressione, gli spazi sembrano desolati.
Faccio questa premessa perché l’arte di Bruce Nauman, americano, 78 anni, forse il più radicale e importante artista vivente, non è certo immaginata per la folla e tanto meno per uno spazio mastodontico come quello disegnato da Herzog e de Meuron. Nauman ha sempre fecondato e incubato le proprie idee dentro la sua testa e poi dentro il suo studio, quasi senza immaginare che avrebbero potuto poi essere liberate dentro uno spazio pubblico. Invece, già giovanissimo, nel 1972, gli veniva dedicata una mostra al Lacma di Los Angeles, seguita da una al Whitney di New York e poi da altre in vari musei europei. Lui, un po’ per atteggiamento, un po’ per indole naturale, non ha mai abbracciato la popolarità attivamente, rimanendo per la maggior parte della sua vita isolato nel suo ranch a Galisteo, nel New Mexico, in compagnia della pittrice e moglie Susan Rothenberg, recentemente scomparsa. Una sorta di cowboy a metà fra Sam Shepard e Samuel Beckett, commediografi entrambi.
Non è un caso che molti dei video e dei pezzi sonori di Nauman abbiano una dimensione sia simile a quella del teatro dell’assurdo di Beckett che alla durezza della scrittura di Shepard. La mostra alla Tate, curata dall’italiano Andrea Lissoni, direttore oggi dell’Haus der Kunst di Monaco di Baveria, punta principalmente sul lato teatrale dell’artista, più che sulla sua scultura. Avendo visitato la mostra in tempo di Covid profondo, è difficile dire se l’ansia fosse personale o indotta dall’atmosfera della mostra. Una sorta di claustrofobia esistenziale è il filo rosso che tiene unita la leggenda creativa di questo artista dai primi video in bianco e nero girati nello studio, dove Nauman misura con i suoi passi lo spazio, fino alle ultime grandi proiezioni tecnologicamente più avanzate, ma dove l’autore fa più o meno la stessa cosa. I personaggi del suo racconto, clown e mimi, sono quelli tristi e tragici che in un racconto di Stephen King diventano terrificanti. Il corpo per Nauman è un arnese di scena che serve allo spettacolo della nostra condizione umana.
La parete di neon, One Hundred Live and Die del 1984, dove 100 parole dell’attività umana sono accoppiate al verbo morire, die – ” mangia e muori”, ” dormi e muori”, ” profuma e muori”, ” sorridi e muori” – è un monumento non alla morte, ma alla sua inevitabilità e all’inutilità di ogni tentativo di rimuoverla alla faccia di Freud. Nauman usa il disagio individuale come Rothko usava il colore sulla tela. La tela di Nauman siamo noi – gli spettatori – che assorbiamo il malessere dentro la trama dei nostri pensieri, delle nostre paure, dei nostri desideri.
Molte delle opere in mostra hanno la patina o la polvere degli anni Sessanta e Settanta e tutta la malinconica e deprimente atmosfera autoreferenziale di quel tempo, un’atmosfera complicata da digerire per gli spettatori di oggi, abituati e viziati da esperienze più rapide, spettacolari e patinate. Ma alcuni lavori rimangono fuori dal tempo con la loro dirompente forza. Primo fra tutti, Anthro/ Socio ( Rinde Spinning), presentato la prima volta nella Documenta di Kassel, nel 1992. Su tre grandi proiezioni e sei monitor si vede la testa dell’attore e cantante Rinde Eckert che gira su se stessa. Roteando, l’attore emette un urlo metallico a metà con il canto quasi che si stesse trasformando in un robot meccanico. Le parole che escono dalla bocca sono Feed me, Eat me, Anthropology, Help me, Hurt me Sociology, ” nutrimi, mangiami, antropologia”, ” aiutami, feriscimi sociologia”. Un’opera che appare fin troppo contemporanea in un momento come questo quando la società intera è schiacciata dentro i propri istinti e necessità basilari. Potentissimo e odioso questo lavoro diventa il fulcro della mostra dalla quale usciamo, ma non prima aver attraversato il corridoio sonoro di 21 altoparlanti di Raw Materials del 2004, quello che potremmo definire il ” best of”, il meglio dei lavori sonori di Bruce Nauman, tra i quali Get out of my mind , get out of this room, ” esci dalla mia mente, esci da questa stanza”, un ordine ripetuto ossessivamente che ci spinge ad uscire se non addirittura a fuggire da questa mostra che Nauman e il suo curatore sono riusciti a trasformare in uno stato mentale e in uno spazio fisico al tempo stesso. Uno spazio dentro al quale abbiamo scoperto – se ce ne fosse stato ancora bisogno – il dramma senza fondo della nostra individuale e collettiva anima contemporanea.
Robinson – la Repubblicawww.repubblica.it › robinson