Ma Nardella giura di non essere Renzi, e ora va dicendo di aver finalmente capito che quel modello era insostenibile. Se questa clamorosa conversione fosse vera, se non fossero solo lacrime di coccodrillo, invece di farci assistere a questa squallida sceneggiata il sindaco dovrebbe cogliere l’occasione per cambiare tutto. Ad esempio: i musei comunali dovrebbero essere gestiti per il pubblico, non come depositi di capolavori amministrati dalla politica. Se non fosse possibile, bisognerebbe avere il coraggio di rinunciare al balzello del biglietto. Si pensi alla Cappella Brancacci di Masaccio e Masolino, artificiosamente separata dalla basilica del Carmine di cui fa parte, e visitabile attraverso un percorso che toglie a chi la vede la coscienza dell’unità del contesto in cui si trova. In questi giorni, con il ‘sequestro’ dei musei comunali, la Cappella è visibile da lontano, dalla chiesa, ma è resa inaccessibile da dissuasori ora doppiamente surreali. Ebbene, si abbia il coraggio di rimuoverli per sempre. Per tutti gli altri veri musei (da Palazzo Vecchio al Museo del Novecento) il 1º passo sarebbe costituire, finalmente, al loro interno delle vere comunità di ricercatori (assunti a tempo indeterminato). E poi farli guidare da direttori scovati con bandi internazionali (affidati alla comunità scientifica) e non da imbarazzanti figure locali con l’unico merito di esser completamente genuflesse al sindaco.
Prima ancora, bisognerebbe ripartire dalle circa 200 persone che lavorano nei musei comunali, e che oggi si vedono ‘sequestrate’ insieme alle opere che custodiscono: “Addetti in appalto, con stipendi bassi e con contratti part time involontari: cioè lavoro povero” (ancora la Cgil). Il Comune non deve usare questi lavoratori per strappare al Governo soldi una tantum, con cui tamponare la spesa corrente, ma dovrebbe semmai chiedere un’integrazione strutturale al bilancio della cultura per assumerli a tempo indeterminato, reinternalizzando così una funzione cruciale. Se non lo fa, è perché il sistema dell’arte comunale rimanga nelle mani in cui lo mise Renzi sindaco: quelle fidatissime dell’amico scout Matteo Spanò, presidente di Muse, l’associazione che gestisce questo patrimonio senza eguali al mondo. Lo stesso Spanò che presiede quella Banca di Credito Cooperativo di Pontassieve che nel 2010 concesse alla Chill Post di Tiziano Renzi un mutuo di 496 mila euro (l’inchiesta per bancarotta fraudolenta della società fu archiviata nel 2016).
Ora che la gallina delle uova d’oro s’è bloccata, i fiorentini si accorgono che l’arte dei loro padri non è più per loro: spariscono i turisti e il luna park abbassa il bandone. Come mi ha scritto un amico la cui famiglia ha contribuito a fare la storia della cultura fiorentina dell’ultimo secolo: “Sono tantissimi i fiorentini che, come me, assistono basiti alla totale assenza di attenzione politica ai fabbisogni culturali dei cittadini. La chiusura dei musei fiorentini rappresenta una delle più gravi barbarie (…). Non capisco perché non si consenta una volta tanto, in condizioni (speriamo) irripetibili, di aprire i musei come fossero case, a chi questa città la vive. (…) Ancora una volta si perde una grande occasione per cercare di ristabilire quel necessario senso di cittadinanza e di appartenenza che da tanto, troppo tempo questa città ha ormai perduto. Mi dispiace e mi fa anche tanta rabbia, perché siamo chiamati al sacrificio e alla rinuncia senza poter imparare dai nostri avi che le barbarie e la desertificazione dello spirito si combattono anche con la bellezza che ci appartiene, ma che di fatto ci viene negata ‘perché non è conveniente aprire i musei’”. C’è del metodo in questa follia: chi tratta i lavoratori come merce, considera merce i musei. In questo caso, merce di scambio.