Per i dotti e sapienti rappresentanti dell’élite progressista europea, accusare di razzismo è come giocare alla roulette. Ogni giorno un nuovo j’accuse, che rotola – faites vos jeux – come una pallina d’avorio – les jeux sont faits – fra i settori numerati – rien ne va plus – per poi determinare il numero predestinato. Rouge o noirpair o impair, poco importa, l’importante è puntare tutto su discriminazione, intolleranza, fanatismo. E non resta che augurare bonne chance a chi è seduto al tavolo verde.

Da qualche settimana, una nutrita équipe di intellò – fedeli vassalli del sultanato del mainstream – tentano l’en plein puntando tutto su Éric Zemmour, il vituperato scrittore-giornalista che ha già mandato a monte ogni pronostico elettorale senza aver ancora ufficializzato la propria candidatura alle presidenziali francesi del 2022. “Misogino, omofobo, razzista, islamofobo”, starnazzano, in preda ad una crisi di nervi, mentre serpeggia, fra le fila liberal ordinatamente schierate, l’agghiacciante sospetto di poter assistere ad un nuovo fenomeno alla Johnson-Trump.

Ma Monsieur Z – da navigato uomo dei media – conosce fin troppo bene le regole del gioco, e incassa quei dilettanteschi tentativi di accusa che non fanno altro che aumentare la cifra degli Zemmour-lovers, con la stessa maestria d’un baro consumato, lasciando tutti col fiato sospeso. Poker d’assi o poderoso bluff? A coloro che lo biasimano per le idee razziste, Zemmour risponde con la necessità di una totale intransigenza verso un problema esistente – quello della banlieuizzazione della Francia – e l’urgenza di imbracciare poderose misure contenitive del fenomeno, per arginare quella guerra civile in atto sul territorio fra francesi e immigrati.

“La peculiarità di noi francesi è che ai conflitti esteriori aggiungiamo sempre delle lotte intestine. Siamo il paese delle guerre civili. Una parte delle nostre élite si ritorce sempre contro il popolo francese, per prendere le parti dell’impero del momento, in nome di un universalismo smarrito. […] Ed ogni volta, parte dei francesi si sottomette a quest’impero per combattere contro altri francesi che vogliono allontanare l’invasore”

scrive nel suo ultimo libro, La France n’a pas dit son dernier mot, che ha già sfondato ogni previsione di vendita. E a ribadire la necessità di un ritorno della sovranità della civilizzazione contro i «barbari», cita poi lo storico Jacques Bainville e il principio della sua Histoire de France: «i Francesi non sono né una razza né un impero; sono qualcosa di meglio, sono una nazione».

Come evitare, quindi, la lotta intestina? Zemmour risponde con la teoria dell’assimilazione, secondo la quale gli immigrati dovrebbero abbracciare la cultura francese, i suoi usi e costumi, avendo “in cambio” piena libertà di professare la propria religione ma non – questa la sua discutibile e discussa proposta – quella di scegliere, al momento della denuncia anagrafica, nomi stranieri.

Insomma, è il momento di una rivoluzione copernicana, secondo l’essayiste più sciovinista d’Oltralpe.

“I musulmani che vogliono integrarsi nella nostra civiltà devono poterlo fare senza preoccupazione o senso di colpa, senza essere per questo tormentati da chi li tratta da apostati. […] Se sono venuti a casa nostra, è per beneficiare delle bellezze e dei vantaggi della civiltà occidentale, nata dall’incontro fra la religione cristiana e della cultura greco-romana e non per rivivere l’angoscia delle civiltà da cui sono fuggiti”.

Ma come frenare l’ascesa di Zemmour, quel consenso che avanza rapido come una rolling stone in caduta libera? Etichettato come pensatore d’estrema destra, i più polemici provano a giocare l’ultima carta, attaccandogli addosso l’etichetta di fascista, di colui che strizza l’occhio ai totalitarismi, nel classico tentativo progressista di delegittimare gli avversari dipingendoli come incivili. Ma le suddette accuse, in Francia, non reggono, poiché – a parte il regime collaborazionista di Vichy – il fascismo francese non ha mai avuto, storicamente, la minima chance di andare al governo. In Italia una simile accusa si tramuterebbe facilmente in una character assassination, con relativo cartellino rosso ed espulsione dal campo di gioco, ma in Francia un siffatto tentativo non urta alcuna sensibilità, l’elettorato se ne infischia bellamente. La resistenza francese al nazismo era infatti incarnata dal generale De Gaulle, non propriamente un funzionario del partito comunista o un maître a penser gauchista.

“Sono rimasto piuttosto scioccato – ed ho anche ricevuto un ammonimento da parte del CSA (Conseil supérieur de l’audiovisuel) – per aver dichiarato, sulla rete di CNews, di essere al fianco del generale Bugeaud, «pacificatore» d’Algeria, anche se tra le vittime ci sono stati sicuramente i miei antenati, membri della tribù berbera degli Azemmour, che si muovevano, nel loro nomadismo, su territori a cavallo della frontiera fra Algeria e Marocco. Mi è del tutto estranea l’idea di glorificare dei massacri (contro i miei stessi antenati poi!); volevo soltanto spiegare come funziona il meccanismo dell’assimilazione” replica, infatti, nel suo ultimo libro, il giornalista di origini ebraico-berbere oggi apertamente schierato contro lo ius soli.

Ma Zemmour – e qui non s’intende patrocinarne la causa – è sotto osservazione microscopica, come un temibile bacillo, più che dal suo potenziale elettorato, dalla classe politica francese, che già ipotizza un necessario riposizionamento di Macron e i possibili cedimenti del presidente uscente per attrarre nuovi voti. Se Zemmour intercettasse le simpatie dei républicains, elettorato della destra moderata, oltre a quelle dei lepenisti scontenti, il ballottaggio potrebbe risultare aperto, con un Macron che riuscirebbe a riacciuffare la vittoria per un pelo.

Del resto, uomo d’establishment, navigato frequentatore dei salotti televisivi e delle colonne de Le Figaro, parla la lingua della bourgeoisie, chi è, in fondo, Èric Zemmour – idee a parte – se non un Macron di destra? Un eventuale secondo turno fra i due, si sostanzierebbe in uno scontro fra l’illuminismo tecnocratico di Macron e il romanticismo identitario di Zemmour, una lotta simile a quelle primo ottocentesche, fra cultura illuminista e grandi reazionari.

“Ha il razzismo come unico programma”, lo accusano, in maniera quasi tenera, puerile, e lui risponde, attaccando la gauche ne La France n’a pas dit son dernier mot, elencando tutte le grandi occasioni mancate della sinistra stessa:

“Dobbiamo riunirci attorno a quel che io chiamo «le cinque I»: identità, immigrazione, indipendenza, istruzione, industria. Questi cinque temi non possono essere classificati secondo la vecchia divisione destra-sinistra. La secolarizzazione era di sinistra, ma è stata la sinistra ad abbandonare il dovere della laicità nel dibattito pubblico. La meritocrazia della scuola repubblicana era di sinistra, ma è stata la sinistra ad averla cancellata a beneficio delle fantasie del pedagogismo e della discriminazione costruttiva. L’assimilazione era di sinistra, ma è stata la sinistra a farla morire a beneficio del multiculturalismo. La lotta contro l’immigrazione era di sinistra, ma è stata la sinistra ad aver barattato i lavoratori francesi con gli immigrati. La sfiducia nei confronti della religione, considerata come l’oppio dei popoli, era di sinistra, ma è stata la sinistra a sottomettersi all’islam. Il patriottismo era di sinistra, ma è stata la sinistra ad abbandonare il caro, vecchio paese a beneficio di una visione disincarnata e globalizzata della repubblica”.

Bisogna dire basta, sostiene Zemmour, a coloro che continuano, da anni, ad «emmerder la France». Ad infiammare gli animi del team dei suoi detrattori c’è poi la questione religiosa, un dissidio sociale che, solo in Francia, ha assunto toni estremamente esacerbati. Il passato cristiano dell’Europa è quindi diventato un’arma nelle mani dei populisti? E come è potuto accadere?

Una risposta ha provato a darla il politologo Olivier Roy, anch’egli francese, il quale, nel suo saggio L’Europa è ancora cristiana?, disvelando le ipocrisie del liberalismo, in cui lo Stato moderno è impantanato come nelle sabbie mobili, sostiene che “La teoria del contratto sociale, su cui si fondano le società liberali, vacilla sulle proprie fondamenta, poiché non riesce a dare risposte al paradosso avanzato dal giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde (egli stesso un intellettuale cattolico): «Lo Stato liberale secolare vive su dei principi normativi che lui stesso non è in grado di garantire», perché in tal caso cesserebbe di essere liberale. Una società liberale non può funzionare se non sulla base di un consenso, sia esso culturale o fondato sul contratto sociale. Ma dove trovare questo consenso nella «guerra dei valori»? […] Se il consenso non può giungere dal contratto, non rimane che la tautologia: «Io sono chi sono, noi siamo noi». In altre parole, rimane l’identità, breve estasi narcisistica del populismo”.

Riuscirà pertanto il centauro Zemmour– metà testa d’élite e metà corpo del popolo – ad essere il tessitore intransigente del nuovo contratto sociale francese?