L’appuntamento Modenantiquaria riflette sul successo intramontabile per le vicende degli dèi e degli eroi. Uno scrittore spiega perché nel bene o nel male quelle storie appartengono al nostro universo psichico sempre rinnovato dai racconti, ci dà la verità assoluta
di Nicola Gardini
Il classico piace, e a ragione l’industria culturale ne approfitta, all’estero forse ancor più che in Italia, facendone il tema di mostre, pubblicazioni ed eventi di vario genere e di varia risonanza. Logiche di profitto a parte, e pure giudizi di valore sulle iniziative che da tali logiche discendono, il classico ha qualcosa di spettacolare in sé. È fatto per attirare pubblico, vuole comunicare con tutti, si offre all’ascolto e allo sguardo della collettività (ecco perché siamo ben contenti di pagare una qualche cifra per goderne).
Sua essenza è il mito, ovvero il racconto di un destino, dove la vicenda di questo o quell’eroe, di questo o quel popolo acquista fascino di modello. Il mito non viene senza insegnamento: Troia era forte, ma nessuno, né individuo né Stato, è mai tanto forte quanto pretende di essere; Odisseo aveva l’occasione di diventare immortale, ma un uomo è uomo solo se ama la propria vita e le persone che si è scelto.
Proprio la dimensione esemplare permette a uno stesso mito di comparire nelle più diverse culture e lingue. I troiani perdono la guerra, come racconta per primo Omero (e come sta rinarrando una bella mostra al British Museum), e nella loro sconfitta si consumano tutte le superpotenze che sono state, sono e saranno. Odisseo riguadagna Itaca, e con lui rincasano tutti gli espatriati di tutti i tempi.
Il mito è antico e la sua antichità lo cambia in una realtà assoluta, che si rinfresca puntualmente nel racconto. Dunque, è sempre giovane, perché sempre nuovo è chi lo riporta. Si rivela, pertanto, il contrario delle notizie, che invecchiano già un minuto dopo esser state comunicate e non ringiovaniscono certo nel ripetersi o, tanto meno, nel variarsi.
Come una festa
Anche se ridotto a novella resta un rituale collettivo: che celebra la bellezza della vita che fugge
Il classico, dunque, piace perché è mitico e perché ci istruisce sulle condizioni dell’umanità. Parla di altri ma parla anche di me, avvertendomi sulla mia grandezza e nel contempo mettendomi in guardia contro i pericoli che tale grandezza non smette mai di correre. Alcuni dei miti più fondativi hanno per protagonisti, non a caso, falliti eccellenti. Pensiamo a Prometeo, che rubò il fuoco agli dèi per darlo agli umani, e a Edipo, che liberò Tebe dagli enigmi della Sfinge. E non dimentichiamo che anche chi più sembra riuscire non può restare tranquillo fino alla fine. Odisseo dovrà ripartire un giorno e arrivare in terre ignote. Non sarà altro che l’incarnazione di colui che va via e deve ritornare. In termini universali: ogni approdo è illusione.
Il mito ci mette tutti d’accordo; è la nostra storia comune, storia psichica, dove le contrapposizioni spariscono e i ricordi si condividono. Anche per questo ci attira. Sappiamo che, per quanto inventato e re-inventato, esprime una verità prima, e dunque si sottrae per suo stesso statuto alle derive in cui divagano le nostre credenze e le nostre informazioni.
Il fatto che si lasci interpretare in più modi o che lasci aperta all’infinito l’interpretazione (Odisseo mente sempre? Edipo non ha proprio scusanti? Perché Orfeo si è girato? Elena è stata una cattiva moglie? Narciso è un insopportabile narcisista o un maestro d’introspezione?) non lo rende meno necessario e autorevole. Anzi: il mito è quel racconto che quanto più si trasforma nella ripetizione e nella rilettura tanto più attua la sua sostanza di parola ultima. Varia senza cadere nell’incoerenza; permane senza sbiadire.
Oggi, certo, il mito non significa più quello che poteva significare molti secoli fa, prima che la religione cristiana lo degradasse al rango di immensa menzogna. Già nella Grecia e nella Roma pagana non rappresentava di necessità un paradigma della condizione umana. Per tempo è diventato letteratura e intrattenimento. Prendiamo le Metamorfosi di Ovidio, il repertorio di miti più ampio che l’antichità ci abbia consegnato. Ovidio non aveva nessuna fede negli dèi dei quali parlava. Il mito, tuttavia, anche quando si abbassa a far da romanzo o da novella, come nel suo poema, si impone come rituale collettivo; come festa.
E che cosa festeggia? Che cosa ci chiede di festeggiare? La bellezza di questa nostra vita che fugge, e la felicità di eternarla in una certa posa, in un certo evento emblematico, fosse pure il più terribile. E allora anche il sacrilego Ovidio ci metterà davanti qualcosa di profondamente vero, di essenzialmente classico, grazie al suo sguardo ammirato, fissato sulla durata dell’istante. Sarà allora l’irripetibile ciò di cui il mito ci avrà dato conto: un attimo di intimità con un pensiero o un’immagine che le nostre esistenze distratte sempre meno sanno riconoscere.