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I fratelli Lucia e Giovanni Alberto Aleotti, proprietari della principale azienda farmaceutica italiana — la multinazionale Menarini — devono essere condannati a 9 anni di reclusione per riciclaggio degli immensi profitti illeciti realizzati dal loro padre, Alberto Aleotti, morto nel 2014. È la richiesta rivolta alla corte di appello di Firenze dal procuratore di Livorno (ed ex sostituto a Firenze) Ettore Squillace Greco, che ha concluso ieri la requisitoria iniziata il 10 ottobre dal sostituto procuratore generale Benedetta Parducci e dal procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, che con Squillace e con la collega Giuseppina Mione ha coordinato le indagini del Nas Carabinieri sulla « articolazione aziendale occulta » della Menarini, grazie alla quale — secondo le accuse — Alberto Aleotti ha accumulato in circa venti anni un immenso patrimonio valutato in un miliardo e 200 milioni di euro. Un patrimonio illegale perché alimentato dalle sovrafatturazioni dei principi attivi (le materie prime dei farmaci), che la Menarini acquistava dalle aziende produttrici tramite società interposte. Illegale perché riciclato in più passaggi (anche con incredibili trasporti di milioni in contanti) su conti di società quasi tutte panamensi. E illegale perché nascosto per decenni al fisco italiano a cui gli Aleotti, dopo l’avvio dell’inchiesta, hanno versato circa 400 milioni di euro per “fare la pace”.
L’accusa chiede anche la condanna a 2 anni e 8 mesi per riciclaggio della vedova di Alberto Aleotti, Massimiliana Landini, assolta dal tribunale. Che invece, il 9 settembre 2016, aveva condannato i suoi figli Giovanni Alberto e Lucia rispettivamente a 7 anni e mezzo per riciclaggio e a 10 anni e mezzo per riciclaggio e corruzione. Quest’ultimo reato (commesso, secondo le accuse, per scongiurare norme in favore dei farmaci generici, invisi agli Aleotti) si è ora prescritto.
Riguardo ai reati “ presupposto” del riciclaggio, il tribunale aveva ritenuto provata la enorme evasione fiscale ma non sufficientemente dimostrata la contestata colossale truffa al Servizio sanitario nazionale, indotto — secondo le accuse — ad acquistare i farmaci a prezzi gonfiati per effetto delle sovrafatturazioni delle materie prime.
Perciò l’accusa, oltre a ricostruire l’impressionante architettura ideata « da una mente straordinaria » per accumulare e far sparire i profitti illeciti, — « vicenda che si potrebbe inserire in un manuale sul riciclaggio, per quanto è emblematica », ha detto il dottor Squillace — ha ripercorso i numerosi elementi di prova sull’esistenza della truffa. Tesi condivisa dai legali degli oltre cento enti, fra Regioni, Asl e Aziende ospedaliere, che si sono costituiti parte civile. Fra la metà degli anni 80 e il 2003 — ha ricordato l’avvocato Francesco Bevacqua — è stata accertata una sovrafatturazione di 40 principi attivi per 792 milioni, di cui 423 riferibili ai sette su cui si sono concentrate le indagini. Ne è derivato un sovrapprezzo dei farmaci. Il Servizio sanitario nazionale ha pagato «con moneta pubblica» «ciò che non avrebbe dovuto pagare » , e quel denaro si è trasformato in «utilità illecita» per Aleotti. Il danno per la Regione Toscana per soli sette farmaci è stato valutato in 11 milioni di euro.
Al termine della requisitoria il procuratore Squillace ha citato Dumas: «Ogni falsità è una maschera, e per quanto sia ben fatta si arriva sempre, con un po’ di attenzione, a distinguerla dal volto » . Ora la parola passa alle difese.