La leader di Fratelli d’Italia alla convention dove oggi parlerà Trump “Non mi tirerei indietro, ma rispetto il criterio adottato dalla coalizione”
di Carmelo Lopapa
WASHINGTON — Quanta è lunga la strada dalla Garbatella a Washington. Ma è valsa la pena percorrerla tutta, se alla fine è servita per venirsi a prendere lo scettro della destra italiana. Giorgia Meloni passa da un bilaterale all’altro con deputati e senatori americani, giacca celeste su maglia bianca, inglese perfetto, incontri con colleghi parlamentari dalla Svizzera, dalla Germania e dalla Macedonia, tutto rigorosamente a porte chiuse, tutto coperto dal massimo riserbo, qui al Washington Hilton, albergone e centro congressi nel cuore della capitale americana. Momenti di confronto, riflessione e perfino preghiera per questo appuntamento annuale bipartisan, repubblicani (soprattutto) e democratici. Sono le regole del National Prayer Breakfast, nel quale questa mattina prenderà la parola il presidente Usa, Donald Trump, come avviene ogni anno dai tempi di Eisenhower: 1.500 persone, 300 i politici invitati da 150 Paesi stranieri, Meloni unico leader politico italiano.
Giusto la ex militante del Fronte della gioventù che si è inventata Fratelli d’Italia da una costola del Pdl portandola dall’1,9 per cento del 2013 al 6,4 del 2019, fino al clamoroso 10-11 che le accreditano gli ultimi sondaggi. Lei, non Matteo Salvini, nell’invito recapitato alcune settimane fa. «Ma non sono qui in cerca di accredito – glissa in una pausa dei lavori del Npb – Non mi interessa diventare l’interlocutore privilegiato di Trump, voglio esserlo degli italiani e semmai rappresentarli al meglio. Qui sono tutti molto curiosi, mi chiedono cosa stia accadendo in Italia – racconta E quanti partiti abbiamo. Quando rispondo che anzi adesso siamo scesi a sette, strabuzzano gli occhi ».
Fatto sta che a Washington c’è l’ex ministra della Gioventù dell’ultimo governo Berlusconi, la donna che oggi non teme di accostare il suo nome alla parola premiership, anche perchè per una clamorosa e assai generosa classifica del Times sarebbe una delle venti personalità “che cambieranno il mondo nel 2020”. Non il leader del 32 per cento, finito però in una sequenza di inchieste delle procure con l’accusa di sequestro di persona e troppo legato a Mosca, per gli americani: lui, i suoi uomini, con quell’indagine prorogata ora di sei mesi sull’ex braccio destro Savoini per la presunta tangente dai russi. Le dichiarazioni pro Trump e contro l’Iran, il sostegno a Gerusalemme capitale non sono bastate. Per i conservatori statunitensi è con lei che bisognerà interagire, nonostante i vent’anni di destra-destra della sovranista cresciuta col mito di Giorgio Almirante in uno dei quartieri storici della sinistra romana.
Nelle ore che precedono l’incontro (a distanza) con Trump si volta un po’ indietro, guarda la strada percorsa e su un divanetto dell’Hilton confessa che le difficoltà maggiori in questi anni le ha incontrate «proprio a destra: nel convincere il nostro mondo a tornare a casa, a ricostruire quell’area che si era dissolta dopo il fallimento di Gianfranco Fini e a farlo con questa ragazzina che tutti avevano visto venir su dal nulla. Quante volte ho avuto voglia di mollare, anche di recente: quando alle Europee del 2014 ci siamo fermati al 3,6 e per 70 mila voti non abbiamo raggiunto la soglia, quando eravamo in nove a fare opposizione per cinque anni in aula, dal 2013 al 2018. Poi sono arrivati i primi sindaci, i consiglieri regionali e il 6,4 alle ultime Europee». Oggi i sondaggi le riconoscono quasi le percentuali toccate da An (14,5 il picco). La destra si è ripresa il suo, si direbbe. I numeri di Fini, un nome che è un vulnus, da quelle parti. «Per me e per tutti noi resta inspiegabile quel che ha fatto – sostiene Meloni – Quel che gli va riconosciuto è di aver impresso a un certo punto una sterzata, dando alla destra un ruolo di governo». Poi non ne vuole più parlare. Sta di fatto che dopo Fini lei è accusata di aver riportato la destra ad istinti nostalgici e pulsioni xenofobe.
Lei in crescita costante, «ma vorrei che questo treno non corresse così veloce, in politica cambia tutto rapidamente, un giorno sali e uno scendi, a volte si vota un partito come si segue la moda di un momento. Ma veniamo premiati dagli elettori che ci riconoscono, sanno qual è il nostro messaggio, quali valori difendiamo e sanno che siamo persone oneste, per bene. Ha ragione Sgarbi, siamo come l’Harry’s Bar, tutti sanno cos’è e dove si trova ». È il suo momento, lo si intuisce anche dai 241 messaggi Whatsapp ritrovati nel cellulare appena sbarcata a Washington dopo 9 ore di volo. «Provo a restare coi piedi per terra, perché tutto può finire. Ma prima che accada andremo al governo al posto di questi incompetenti che litigano su tutto».
Al governo con Matteo Salvini, sottinteso. Il principale alleato etichettato per di più in tutta Europa come uomo (duro) della destra. «Lui ha intravisto uno spazio politico che riteneva disponibile e ha cercato di occuparlo, ed è un bene, più siamo a difendere certe idee e meglio è – dice la presidente di Fdi da Washington – ma mi fa sorridere quando chiedono chi sia più di destra tra noi due. Perché io sono la destra, io ci sono nata, mi sono iscritta a 15 anni al Fronte e oggi ne ho 43, da lì non mi muovo». La sensazione dall’esterno è che siano costretti a stare insieme. «La rivalità è tutta costruita da voi. Io dico che siamo due persone diverse, io molto riflessiva, puntigliosa, lui un istintivo. Però penso che proprio per questo siamo complementari. E che potremmo governare benissimo insieme». L’ultima guerriglia sulla Puglia, che la Lega vuole a tutti i costi per un suo uomo al posto del già designato Raffaele Fitto (Fdi), è solo uno degli indizi. «L’ho detto a Salvini e lo ripeto: a casa mia i patti si rispettano. Noi li abbiamo rispettati anche quando non eravamo convinti». Tacito riferimento alla scelta dei leghisti di puntare su Lucia Borgonzoni in Emilia Romagna. Urge un nuovo vertice a tre al suo rientro in Italia.
Ma resta Salvini il candidato premier della coalizione o la fondatrice di Fdi, tanto più qui da Washington, sta accarezzando l’idea?«Ma no, è giusto il metodo seguito finora delle primarie di fatto: il leader del partito che ha più voti nella coalizione è il candidato naturale alla premiership – spiega la deputata romana – Io sono realista. Ma se un domani gli italiani decidessero diversamente, non mi tirerei indietro. È una sfida che fa tremare i polsi, l’ho detto, ma sarei pronta. E penso che il Paese sia pronto a una donna premier, ancor più a una presidente della Repubblica donna. In Europa funziona già così». E se qualcosa non va? «Mi tengo sempre una via di fuga, la possibilità di fare altro nella vita, non mi vedo incollata alla poltrona». Tipo cosa? «Il mio segreto? Mi piacerebbe tantissimo fare un programma radiofonico, anzi lavorare proprio in radio, la amo da morire».