Andiamo con ordine. Era la fine del 2016 quando il gruppo di Vincent Bolloré ruppe la pace con Berlusconi e avviò “una campagna di acquisizione ostile”, scrivono i giudici basati in Lussemburgo, arrivando al 28,8% del capitale di Mediaset, pari al 29,94% dei diritti di voto in assemblea. Il Biscione accusò i francesi “di aver violato la disposizione italiana che, allo scopo di salvaguardare il pluralismo dell’informazione, vieta” di avere anche indirettamente oltre il 40% dei ricavi nazionali nel settore Tlc e oltre il 10% del cosiddetto Sic (sistema integrato delle comunicazioni), cioè tv, giornali eccetera. In sostanza, il 23,9% di Tim in mano a Vivendi (primo socio dell’ex monopolista della telefonia) le impediva di muoversi in Mediaset (e viceversa) per via di un comma della legge Gasparri.
Nel 2017 l’Agcom diede ragione al ricorso di Mediaset e il 19,19% delle azioni francesi fu congelato nel trust Simon Fiduciaria. Nel 2018, invece, l’atto di nascita del governo gialloverde fu anticipato dall’ingresso di Cassa Depositi e Prestiti in Tim in funzione anti-Vivendi (a Chigi c’era Gentiloni, ma Lega e M5S diedero il loro ok preventivo): quell’operazione fu la contropartita concessa a Berlusconi per dare a Matteo Salvini il via libera al governo coi 5Stelle senza rompere l’alleanza nelle Regioni.
Cos’è successo oggi? Tutto nasce dall’ovvio ricorso al Tar di Vivendi contro la decisione dell’Agcom e la legge Gasparri. A loro volta i giudici si sono rivolti alla Corte di Giustizia Ue, che ora dice che quel vincolo antitrust è irragionevole e contrario al diritto comunitario, restituendo di fatto il pieno diritto alle proprie azioni a Vivendi e – grazie al dispositivo della sentenza – dando il via libera all’integrazione tra società di Tlc e gruppi televisivi. Il titolo Mediaset ha banchettato in Borsa (+5%): gli investitori preferiscono gli invasori francesi all’asfittica gestione familiare che – basta leggere gli ultimi bilanci – sta portando l’azienda a consunzione con un modello di business logoro e senza futuro (dicono qualcosa Netflix o Amazon video?).
La prima linea del management storico di Mediaset (da Pier Silvio e Confalonieri in giù) aveva provato l’ultimo arrocco col progetto del (mini)polo europeo della tv: unire la divisione spagnola e quella italiana – più il 20% della tedesca Prosebiensat – in una Mediaset di diritto olandese per rafforzare finanziariamente e via regolamentazione legale il controllo del Biscione su un’azienda che in Italia non produce più utili. Il progetto è stato anch’esso fermato in tribunale – ah, questi giudici – sia in Spagna che in Olanda: ovviamente su ricorso di Vivendi.
E ora? Le intenzioni di Silvio Berlusconi non sono chiare, ma alcuni manager del gruppo, con la benedizione silenziosa dei tre figli di Veronica Lario, hanno tenuto aperto un dialogo coi francesi anche in questi anni. Tutto dice che, al di là delle dichiarazioni pubbliche, Mediaset e Vivendi dovranno accordarsi: la prima adesso è una preda molto indebolita, la seconda ha interesse a mettere a frutto i suoi investimenti italiani e a togliere di mezzo la richiesta di risarcimento da oltre 3 miliardi seguita al rifiuto francese di comprarsi il bubbone Mediaset Premium.
Questo accordo a due sarebbe però solo il primo passo: la partita della tv di Cologno s’intreccia in maniera inestricabile con quella della rete unica, dove finora governo e Vivendi sono andati d’amore e d’accordo e che pare interessare adesso anche Mediaset (“se non ci sono più vincoli, valutiamo con interesse il progetto della società della fibra”). La rete serve per i servizi di telefonia e Internet ed è sul web che viaggia oggi e ancor più domani la tv o, meglio, la fruizione di contenuti video. Non è un caso che Bolloré – che ha già una media company attiva in tutta Europa – abbia investito oltre 5 miliardi e mezzo su Mediaset e Tim (registrando finora una cospicua perdita): l’integrazione in un mega-produttore di contenuti e servizi di livello europeo è l’unica prospettiva per combattere la vera guerra del futuro, quella contro i cosiddetti OTT, gli “over the top” della rete come Amazon, Facebook o Google.
La sentenza di ieri riapre anche questa partita che, nelle chiacchierate informali mai interrotte, ha interessato anche Sky Italia, non proprio nel cuore dei proprietari, gli americani di ComCast. Non secondario, infine, il fatto che la nuova aggregazione – coinvolgendo Tim – possa riguardare anche Cassa depositi e prestiti (azionista col 10%): un occhio pubblico a questo cambiamento epocale non dispiace al Pd, ma non è chiaro cosa pensino i 5Stelle, Beppe Grillo e i berlusconiani del centrosinistra Renzi e Calenda.