di Melania Mazzucco
Stiamo andando tutti a scuola.
Mentre i figli si arrangiano confusi, e talvolta divertiti, con le loro lezioni nelle classi virtuali, digitando le risposte alle domande multiple, rassicurati dalle certezze dell’apprendimento a distanza, noi adulti sperimentiamo lezioni solitarie, senza maestri, senza risposte esatte. Ma quando tutto sarà finito, affinché queste settimane o mesi di sospensione e interruzione non si rivelino tempo perduto — rubato alle nostre vite, e che mai sarà restituito — dovremo aver imparato più di loro.
Le mie materie di studio sono sostanzialmente tre. Corpo, tempo, denaro. La mia filosofia e la mia esperienza mi hanno impedito di considerare naturale la salute. Sapevo già che la morte può essere improvvisa, intempestiva — arrivare con la puntura di un insetto, il capriccio di una cellula, o un difetto congenito di fabbricazione. Quindi ciò che imparo oggi non è tanto la precarietà della nostra condizione, umana e perciò mortale, quanto la tirannia del corpo stesso. Costretto all’immobilità, o a patetici esercizi addominali sul terrazzo, ridotto ad apparato digerente, che invoca materialmente cibo come una macchina a benzina, esso agogna più che mai il contatto fisico, con qualunque essere vivente. L’abolizione del quinto senso, quello del tatto — il più sottovalutato, forse — mi si rivela una deprivazione psichica. Mi rendo conto, con nostalgia acuta, che ogni giorno abbracciavo e baciavo qualcuno.
L’intensità della stretta, l’ampiezza della superficie di contatto delle epidermidi, rappresentavano la gerarchia sentimentale ed emotiva della mia vita. Senza con-tatto, sono disorientata, spersa: mi sento disamata e incapace di manifestare l’amore. Scopro, sbalordita, che la parola può tacere, il corpo no.
La seconda lezione riguarda il tempo. Come tutti quelli che hanno la fortuna di svolgere il lavoro che amano, non ho mai calcolato l’impegno in ore, giorni o mesi. Il tempo semplicemente fluiva, irrefrenabile. Mi rendo conto che lottavo per sottometterlo: era come comprimere il fuoco o arginare una piena. Una fatica immane, che mi lasciava stremata.
Dormivo poco e bene. Ora molto e male. Perché il fuoco è brace. Il mio tempo ha perso il metronomo e la misura. Come negli anni dell’infanzia, le ore sono interminabili, le notti infinite. Devo accettare che sia una fortuna inattesa. Che non devo mai più trattenere le fiamme, né pretendere di domare il tempo, ma godermi sempre, come oggi, il pigro tragitto del sole sulle finestre. C’è qualcosa di straordinariamente consolante nella ripetitività della rotazione terrestre e nella nostra irrilevanza. Sentirsi ospite minuscolo di un universo che ci prescinde, come una formica, o un ragno, è il più alto grado di consapevolezza, la forma più elevata dell’umanità.
Il denaro. Mi sono sempre attenuta alla verità di questa massima: l’unica ricchezza che si possiede è quella che si spende.
Dunque l’epidemia ci ha reso tutti poveri, a prescindere dal baratro economico in cui siamo precipitati e che ciascuno di noi dovrà risalire. Il denaro è tornato alla sua n atura originaria: ci permette unicamente una sorta di baratto. Valore in cambio di cibo o beni di prima necessità.
Quasi a null’altro serve. E l’eccedente va restituito agli altri, che ne necessitano — in forma di servizi, aiuti, supporti.
Una lezione di etica, più che di parsimonia, di cui dovremo tutti un giorno ricordarci.