Max Weber e la solita Italia papista

E l’ultima tappa di questa cicatrice che non si rimargina è l’attuale vertice di Bruxelles tra i capi di Stato e di governo dell’Unione europea.

Nelle trattative si gioca uno scontro – durissimo – di politica e “filosofia” economiche. E uno di tipo strettamente politico-elettorale, collegato alla centralità decisionale dei singoli governi nazionali, ciascuno dei quali si ritrova all’inseguimento della propria opinione pubblica – ed è una certa contraddizione ribadire la minaccia rappresentata per la casa comune dai sovranismi e continuare a non mettere mano alle caratteristiche dei diritti di voto dell’«assemblea di condominio». E, tuttavia, esiste indiscutibilmente anche un terzo livello di conflitto per spiegare l’intransigenza di Mark Rutte, politico abile e di esperienza, come pure, a suo modo, monaco guerriero di una precisa visione del mondo. Nella quale trovano spazio, molto pragmaticamente, il dumping fiscale a danno dei partner europei e una postura negoziale per strappare maggiori rebates sui contributi olandesi al bilancio comunitario, ma anche un modo di pensare stratificatosi nel corso del tempo e convertitosi in un archetipo quasi a tutti gli effetti.

E, così, dato che accanto ai voti conta anche l’immaginario – tanto delle classi dirigenti che dei popoli – la diffidenza dei cosiddetti «Paesi frugali» nei riguardi dell’Italia si capisce pure con la sociologia delle religioni del grande Max Weber. Nessun determinismo, per carità, ma l’utilità di indossare gli occhiali degli altri (la riflessività) per cercare di comprendere come ci guardano. Male, in tutta evidenza. Del resto, sull’esistenza di «una sorta di guerra di religione» tra l’Europa del Nord e quella del Sud è ritornato in più occasioni Emmanuel Macron – presidente di quella nazione anfibia tra i «due mondi» che è la Francia – il quale ricerca, infatti, con perseveranza strategica il ruolo vantaggioso del mediatore. Weberianamente, siamo di fronte a uno spirito calvinista alla base di un’«etica del capitalismo» che, con la finanziarizzazione esponenziale dell’economia e l’ingegneria del debito sovrano, si è fatta iper-austerità. E che si ammanta di un rigorismo che non è solo economico (e valutario) ma, per l’appunto, anche «morale». I Paesi latini – e specialmente l’Italia «papista» (come avrebbero detto i protestanti) – sono cicale che scialano e dilapidano, ai quali non vanno rimessi i peccati-debiti, se non costringendoli a una penitenza (le condizionalità) molto severa. Non per nulla, in tedesco e olandese, Schuld significa, al medesimo tempo, debito e colpa. E quel software calvinista, mixato con il socialdarwinismo anglosassone, si è trasferito anche nella postmodernissima «Ideologia californiana» che ispira le azioni dei «sultani della Silicon Valley», come ebbe modo di scrivere l’Economist.

Il punto è che l’emergenza del Covid-19 ha intensificato, da un capo all’altro del Villaggio globale, un conflitto tra attori diversi che possiede anche un risvolto di lotta per l’egemonia culturale. Quando, invece, nello spaventoso scenario da economia di guerra che ci troviamo a vivere occorrerebbe dismettere qualunque residuo di guerra di religione, e procedere a un «cambio di mentalità» autentico. Come, a fine marzo, indicò sul Financial Times, in un articolo profetico, Mario Draghi, il quale miscela nella sua biografia gli studi giovanili presso i gesuiti con una personale «religione del lavoro» molto apprezzata da Francoforte in su.