L’Europa e i nuovi nazionalisti

di Ezio Mauro
Come sempre, i soldi non sono tutto. Dietro i miliardi del Recovery Fund, contesi tra i Paesi più colpiti dall’emergenza virale e gli Stati egoisti che si definiscono frugali, si è aperta a Bruxelles una partita politica che è appena all’inizio ma che promette di essere decisiva per il futuro del nostro continente perché può cambiare il profilo dell’Europa: inventando finalmente un sovrano per quella moneta nuda che è l’euro, in modo da poterla spendere nelle grandi crisi del mondo.
Più che un problema economico-finanziario, infatti, il Consiglio dei Capi di Stato e di governo affrontava una questione di potestà, la definizione di un’autorità del tutto nuova che senza dirlo consente per la prima volta all’Unione europea di agire come uno Stato, con il potere di fare debito per finanziare una missione comune e creare risorse proprie per finanziare quel debito.
Dopo vent’anni passati a garantire che questa mutualità del debito non sarebbe stata possibile, e l’Ue avrebbe continuato a crescere strabica, con una politica monetaria comune e una politica economica nazionale, ecco che lo schema si ribalta, con l’Europa che va sul mercato a cercare le risorse per finanziare la rinascita del continente dopo la pandemia e aiutare i Paesi più indeboliti dalla sfida virale, impegnandosi a ripagare il debito non con i contributi degli Stati nazionali ma con la novità di una tassa europea sul carbone, o la plastica, o il digitale.
Per la natura imperfetta, incompleta e in eterna costruzione dell’Europa si tratta di un cambio di filosofia, una svolta storica paragonabile a Maastricht. Certamente un salto in avanti, dettato e imposto dalla crisi, garantito e protetto ancora una volta dall’asse franco-tedesco, che si conferma l’unico motore possibile della costruzione europea. Anche se bisogna prendere atto che dopo il coraggio e la spinta solidale dell’inizio, nella fase finale del negoziato Angela Merkel ha appannato la sua leadership, finendo per rimanere impigliata nella contiguità tra le nuove resistenze dei Paesi frugali e le vecchie riserve dell’opinione pubblica tedesca.
La crisi è dunque alla fine il vero unico protagonista di questa svolta, necessaria per ridurre gli squilibri che l’infezione ha aperto nel continente, accentuando le distanze tra gli Stati. Una svolta che nasce dall’emergenza, con il virus che dopo essersi presentato come fattore patogeno, e aver virato in agente sociale di cambiamento, oggi diventa addirittura attore politico, accelerando il progetto d’integrazione europea, e innescando una nuova fase.
Perché è evidente a tutti che la potestà continentale di fare debito e imporre tasse comporta una potestà implicita di coordinamento fiscale, di cui nessuno parla ma che sarà inevitabile. Così come è molto probabile che una volta fissato nel marmo europeo il potere di raccogliere sul mercato le risorse per contrastare uno stato d’eccezione sanitario, lo stesso potere venga utilizzato per contrastare altre emergenze o per garantire altre missioni comuni: comela green transition, la ricerca scientifica, la ricerca spaziale, la difesa.
La vera questione che rimane aperta non è la quantità delle risorse in campo, cioè la misura del compromesso, anche se i sedicenti frugali vogliono imporre una vera frugalità agli altri: ma piuttosto la fragilità del driver politico che deve guidare questa svolta. La massa di denaro a disposizione degli Stati resta impressionante anche dopo la trattativa, tanto da far impallidire il piano Marshall che nel 1948 aiutò dall’America la rinascita europea dopo la distruzione della guerra, impiantando il concetto solidale di Occidente nelle città devastate dai bombardamenti. Lo sforzo è enorme, senza precedenti, l’autorità politica che deve guidarlo, amministrarlo, regolarlo e garantirlo è debole, ed esce ancora più indebolita dal weekend di Bruxelles.
Sta infatti emergendo un nuovissimo nazionalismo non sovranista, ma elettorale, che imprigiona gli Stati spingendoli in nome del consenso dei singoli (e diversi) elettorati a recuperare potere nei confronti della Commissione e della Banca Centrale Europea, impegnate in prima linea a evitare disequilibri eccessivi tra i Paesi più deboli e i più forti. Con il negoziato sul Recovery Fund la questione è diventata evidente: come se gli Stati, accettato per necessità il ricorso al debito comune, volessero poi immediatamente riprenderne il controllo, attraverso la gestione. Ma se gli interessi nazionali vengono prima degli obiettivi comunitari, questa svolta non ha senso e non avrà respiro perché il gigante politico che deve impersonarla ancora una volta scopre di avere i piedi d’argilla.
Con il neo-nazionalismo si rischia anzi di rilanciare l’obiezione sovranista, zittita ormai dalla dimensione del piano di Recovery, e soprattutto dall’evidenza che gli unici aiuti, decisivi, vengono dall’Europa, ieri denunciata per il suo interventismo, oggi criticata perché dovrebbe intervenire di più. E intanto si continua a pagare il conto della Brexit, consegnando una rendita critica di posizione — dopo l’uscita dell’Inghilterra — a chi occupa il posto vacante al confine polemico dell’Unione, come in questi giorni l’Olanda.
Infine, l’indebolimento del centro politico e istituzionale dell’Unione — proprio nel momento di una manovra finanziaria di portata storica — innesca una serie di microfratture e pseudo-aggregazioni ingovernabili: tra Paesi frugali e Stati indebitati, radicalizzando l’eterno contrasto tra il Nord e il Sud dell’Unione; all’interno dello stesso tandem di testa, con la divaricazione nelle previsioni tendenziali del Pil tedesco e di quello francese che rischia di divaricare priorità e obiettivi; tra i beneficiari degli aiuti, con l’Italia che non accetta condizioni, anche se riguardano riforme strutturali indispensabili e troppe volte rimandate; nel gruppo di Visegrad, con i leader autoritari come Orban che addirittura non vogliono subordinare gli interventi finanziari al rispetto dello stato di diritto, come se l’Europa non avesse un’anima e un dovere costitutivo di fedeltà alla democrazia liberale.
Ma soprattutto la svolta imposta dalla crisi — cioè l’invenzione di un sovrano politico con una potestà federale sul piano economico e finanziario — è l’unica strada per trasformare l’Unione in un soggetto capace di muoversi sullo scenario globale in un confronto con Stati Uniti, Cina e Russia, invece di assistere passivamente alle loro manovre disgregatrici della Ue, della Nato e dell’Occidente: vale a dire del sistema politico-istituzionale di garanzia della sicurezza e della crescita che ci siamo costruiti faticosamente nel lungo dopoguerra di pace. Per un paradosso del caos, la pandemia può generare una nuova politica. Ora tocca alla politica generare una nuova Europa.
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