Marisa Merz, donna e artista dall’intensità segreta e dirompente

Si è spenta all’età di 93 anni Marisa Merz, straordinaria artista torinese, precursora e unica artista donna del gruppo dell’Arte Povera, Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2013 e moglie del celebre Mario Merz. Un ricordo tra aneddoti e riflessioni sul ruolo femminile nell’arte, che fu un leit motiv della sua carriera, attraverso opere di straordinaria intensità e raffinatezza.

Quando, nel 2001, Harald Szeeman invitò Marisa Merz alla Biennale di Venezia l’artista, vecchia amica del curatore, lo supplicò di invitare anche “il Mario”, suo marito, che sennò se la sarebbe presa a male. Ma Szeeman fu irremovibile: “No, Marisa: questa è la TUA Biennale!”.

E fu davvero la sua Biennale, grazie a un’opera piccola e apparentemente dimessa come lei ma, come lei, piena di potenza espressiva, quasi devastante dal punto di vista emotivo. Una piccola testina in creta cruda, colorata con poche pennellate e lasciata al suo destino, a seccare come l’aria e il fato avrebbero deciso. Un oggetto che anche oggi, a distanza di quasi vent’anni, procura al solo ripensarlo un brivido sincero e complesso, tra lo struggimento e la tragedia.

Marisa Merz, Senza titolo, 1994, scultura, creta, paraffina. Courtesy Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea, Torre Pellice, Torino

Quella fu davvero la sua Biennale, coronata dal Gran Premio della Giuria Internazionale che anticipava il Leone d’Oro alla carriera vinto una decina d’anni dopo. Alla premiazione lei si alzò con aria spaurita, a testa bassa, mentre il Mario digrignava i denti gonfio di rabbia e di fastidio, e ritirò il premio con l’aria di chi si sente in colpa, quasi non se lo fosse meritato, o non tanto quanto l’avrebbe meritato lui se fosse stato invitato.

Così raccontato, questo aneddoto è una piccola storia ignobile, per dirla con Guccini, in cui una donna che ha sacrificato il suo talento per resistere a una cultura sessista e maschilista, di cui il mondo dell’arte è sempre stato un feroce baluardo, riesce nonostante tutto a emergere, ma non a ottenere il riconoscimento più ambito, quello dell’uomo che ha amato devotamente e incondizionatamente per tutta la vita.

Marisa Merz, Scarpette, 1975, filo di rame. Courtesy Fondazione Merz. Foto di Renato Ghiazza

Sappiamo che la realtà e le relazioni sono ben più complesse di così, ma tornano in mente le riflessioni feroci e amare dell’uxoricida protagonista della Sonata a Kreutzer di Tolstoj, che individua con lucidità le cause sociali, psicologiche e morali del suo gesto, anticipando di un secolo quel capolavoro della sociologia che è “Il dominio maschile” di Pierre Bourdieu.

Il perché è semplice: scambiamo per naturale quello che è invece culturale, ma tramandato e interiorizzato da talmente tanti secoli da aver perso la sua origine ed essere confuso per istinto. La donna è oggetto di desiderio sensuale e destinata al focolare domestico e, anche se le si permette un’emancipazione, è comunque una concessione maschile, che comunque non toglie mai il punto centrale della subalternità per motivi sessuali e familiari.

Marisa Merz, Senza titolo, 1977, Tavolo, filo di rame, fiore, aste in metallo, courtesy Collezione di Emilio e Luisa Marinoni, Lurago Marinone, Italia, Foto- Mario Corti

Ma il sacrificio di Marisa Merz, consueto per le donne della sua generazione, non è stato sufficiente a vincere contro un talento enorme, superiore senza dubbio a quello di molti dei componenti il gruppo dell’Arte Povera di cui fu, a conti fatti, l’unica esponente femminile. Così si racconta che, mentre l’indiscutibilmente straordinario Mario Merz se ne andava sbruffando per opening e rassegne, la Marisa se ne stesse per lo più a casa a badare alla famiglia – alla figlia Beatrice, oggi presidente della Fondazione Merz a Torino – dove intanto sferruzzava non sciarpe e maglioni ma filo di rame, conduttore elettrico della sua enorme passione, trattenuta ma mai spenta.

Tutto il suo lavoro, fondamentale per l’Arte Povera anche se cresciuto in parallelo, è colmo di istanze e riflessioni legate al manufatto tradizionale e al mondo femminile, inteso come contesto sociale indiscutibile e rigido ma anche come luogo di tenerezza e di ricordo. Analogamente ad altre artiste donne che quello stesso mondo hanno raccontato, come Louise Bourgeois o Maria Lai, ogni suo anche piccolo gesto si è trasformato in opere dall’indiscutibile grandezza, ma di una grandezza quasi nascosta, affiorante nel momento del contatto tra l’opera stessa e la sensibilità dello spettatore, come messaggi in codice indecifrabili se non con le cifre dell’anima.

Marisa e Mario Merz presso la Galleria L’Attico, Roma 1969 – photo Claudio Abate

Tavoli, coperte, feticci, altalene, ricami, scodelle, sale, acqua, stanze e mare. Il mondo sciamanico di Marisa Merz somiglia a quello di certe “streghe”, curatrici e medichesse cui ci si rivolgeva per qualsiasi bisogno, dal filtro d’amore all’assistenza al parto. Un mondo fatto di erbe ed esperienza, sapienza atavica e maestria manuale, antico come la vita e da sempre inviso al potere maschile, un atto di cura e di tenerezza e, al contempo, una forma di sublime ribellione.

Come è stata anche l’opera artistica di Marisa Merz, che oggi ci lascia in eredità la sua segreta intensità, i suoi silenzi dirompenti e le sue urla silenziose per tornare dal suo Mario che, sceso a più miti consigli, certamente è li che l’aspetta.