- Dietro le quinte del lettismo c’è un gruppo di ex ragazzi che gli sono stati vicini nella buona e nella cattiva sorte, cioè prima e dopo la defenestrazione da palazzo Chigi nel 2014. E un uomo macchina.
- A Firenze è successo un mezzo miracolo: tutte le anime del partito, compresi gli ex renziani, convergono sulla nomina di una segretaria fiorentina, Di sinistra. Così Lotti finisce in minoranza.
- Quando Enrico non voleva esporsi, c’era Meloni. Ora è quasi il contrario. Non parla di Quirinale, non parla di legge elettorale, e neanche di Renzi. O Quasi.
«Chiedi a Marco» è una frase che dallo scorso 14 marzo rimbalza nei corridoi del Nazareno. Marco è Meloni: schivo, «sono timido e riservato», spiega per declinare le interviste, il pensiero di essere definito «eminenza grigia» lo mette in allarme rosso.
Dietro le quinte del lettismo c’è un gruppo di ex ragazzi che gli sono stati vicini nella buona e nella cattiva sorte, cioè prima e dopo la defenestrazione da palazzo Chigi nel 2014. E un uomo macchina. In questa stagione per lui niente talk, poche dichiarazioni, confidenza quanto basta.
Cinquant’anni, sardo di Quartu nel cagliaritano, è coordinatore della segreteria. Con un corpo scelto, non proprio tutti delicati artificieri (fra loro c’è il vicesegretario Peppe Provenzano) a nome del segretario conduce l’operazione di «lettizzazione» del Pd. Ma attenzione, spiegano: è l’esatto contrario dell’occupazione manu militari del partito. Il Pd recupera fiducia e consenso nei sondaggi, dice Letta, ora si tratta di «superare le logiche correntizie, aprirsi, essere uniti».
Se di «lettizzazione» non si può parlare, si può parlare però di «delottizzazione»: in senso lato, cioè di sterilizzazione e anestesia delle correnti; ma in qualche caso anche in senso stretto, cioè la progressiva perdita di potere dell’area di Luca Lotti, leader dell’ala “guerrilla” della minoranza Base riformista (il leader dei realisti è il ministro Lorenzo Guerini), area oggi in pieno tormento e – secondo i boatos – alle soglie di una scissione.
A Firenze, per esempio, lunedì scorso è successo un mezzo miracolo: la segretaria del Pd toscano Simona Bonafè (vicina al ministro Lorenzo Guerini), il presidente della regione Toscana Eugenio Giani (voluto da Matteo Renzi) e il sindaco di Firenze Dario Nardella (ex fedelissimo di Renzi) hanno lanciato la sindaca di Pontassieve Monica Marini, area di sinistra, come candidata del Pd fiorentino.
Tutti e tre al grido di «unità, non possiamo permetterci divisioni». Il sabato precedente a Firenze era andato Marco Meloni. A parlare con tutti e tre. E alla fine Lotti è finito isolato e il suo candidato uscito di scena.
Di qui a dicembre dieci regioni vanno a congresso, e anche alcune federazioni importanti, come la Bologna rossissima del neosindaco Matteo Lepore. Da questi congressi, e dalle agorà, dovrebbe nascere il «nuovo Pd» promesso da Letta al momento dell’elezione a segretario.
Ma non bisogna aspettarsi un cambio per «rottamazione». Parola detestata da tutti, e soprattutto da Meloni, che è l’anima Dc del gruppo, nel senso moroteo e poi andreattiano. Ma è anche «lussiano», cioè cultore di Emilio Lussu, antifascista, scrittore e fondatore di Giustizia e Libertà. Meloni, con Letta, è convinto della missione storica di riportare il Pd al progetto originario di «grande partito riformista e democratico».
Ma è meno di sinistra del prof tornato da Parigi radicale e progressista, della sua portavoce Monica Nardi e del capostaff Michele Bellini, tutti molto convinti che la risposta alla crisi sia «un cambio netto del paradigma di sviluppo figlio degli anni 90». Gli anni in cui Meloni diventa consigliere alla Regione Sardegna.
«Un ragazzo intelligente e colto, suo padre era un grande amministratore della Sanità cagliaritana, un dc cultore della cosa pubblica», racconta Luciano Uras, cagliaritano, ex senatore e compagno di banco di Meloni. «Era un giovane che partecipava con passione alla stagione di Renato Soru, quella in cui cercammo di difendere il territorio e di riorganizzare l’apparato pubblico». «Marco è affidabile, preparato, combattivo.
Mai opposizione pregiudiziale, sempre nel merito» secondo Mario Bruno, altro consigliere dell’epoca, poi sindaco di Alghero, «Come capogruppo ricordo di aver messo la firma a cinque sue proposte di legge sulla parità di genere».
DALL’ULIVO AL RENZISMO
Laurea in giurisprudenza a Cagliari, master a Firenze, dottorato a Trieste, fra Meloni e Letta la scintilla politica scocca proprio a metà degli anni Novanta. Enrico è il vice “ulivista” di Franco Marini, segretario del Ppi (che ha anche un vice “identitario” ed è Dario Franceschini). Meloni invece è vicesegretario dei giovani popolari, anche lui ulivista e prodiano.
Letta lo ascolta e se lo vuole portare nello staff da ministro. Marco non può: deve finire gli studi. È nell’area degli sconfitti della segreteria di Rocco Buttiglione, che di lì a poco porterà il Ppi in dote a Berlusconi. Da qui in avanti per lui c’è la Margherita e l’Arel di Andreatta.
Poi da esperto giuridico nello staff di Letta, e più avanti fra i fondatori del think-net VeDrò e segretario di TrecentoSessanta, sulla carta «associazione di cultura politica», in concreto la corrente di Letta. Che però viene sciolta al momento dell’ingresso a palazzo Chigi nel 2013.
Fra i parlamentari al fianco di Letta, dopo la defenestrazione da parte di Renzi, resta solo lui. Anche se molti suoi colleghi oggi la raccontano diversa persino ai cronisti di quel fuggi-fuggi. Nel 2015 l’ex premier si dimette da deputato, Meloni resta e dissente.
Non vota l’Italicum, e Renzi lo fa deportare d’imperio dalla commissione affari costituzionali insieme a Bersani, Cuperlo, Bindi, Giorgis, Lattuca, D’Attorre, Pollastrini, Fabbri, Agostini. Non vota anche il Rosatellum. Nel 2017 si scaglia contro la mozione sulla Banca d’Italia che Renzi, non più premier, presenta alla camera: «Un atto di teppismo parlamentare, che squassa l’equilibrio tra le istituzioni», dice al Corriere. E contro Maria Elena Boschi: «Fossi in lei, non mi occuperei di banche».
L’anno dopo Renzi non lo ricandida. Dal 2015 è direttore della Scuola di politiche, 1200 ragazzi passati per i corsi e «un progetto a cui ho lavorato con tutto il mio impegno», ha detto ha lasciato la carica nelle mani di Grazia Iadarola.
Dopo il 2014, alle primarie ha votato Cuperlo, Orlando e Zingaretti. Quando Letta non voleva esporsi, c’era Meloni. Ora è quasi il contrario. Sulla legge elettorale, dossier caldissimo per il Pd, dice di essere «per la logica maggioritaria ma contro il bipartitismo forzato»; il Quirinale è parola che quasi non pronuncia; come la parola Renzi, «ma perché se n’è parlato anche troppo, è stato uno che ha acceso tante speranze, tanta fiducia, tante illusioni».
https://www.editorialedomani.it/