«Patria» e «Vittoria», declinate con diverse sfumature temporali e territoriali, sono state le parole più ricorrenti nei discorsi con cui sia il presidente russo Vladimir Putin sia quello ucraino Volodymyr Zelensky hanno segnato questo 9 maggio, 77mo anniversario della resa del III Reich all’Armata Rossa, nelle rispettive capitali.

Da parte russa non c’è stato l’appello alla mobilitazione generale né la dichiarazione formale di guerra all’Ucraina paventate da Kiev e da alcune cancellerie occidentali. Chi profetizzava qualcosa di «grandioso», come il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, si è dovuto accontentare delle solita coreografia militaresca. Grandiosa sì, ma senza l’apporto dell’aviazione , quindi niente “Z” disegnata nel cielo come si era visto alle prove generali. Con la motivazione ufficiale del meteo che il sole a più riprese si è incaricato di smentire.

PUTIN COMUNQUE HA PARLATO. Nell’ordine ha reso onore alla «generazione dei vincitori», creato i link ormai di rito tra i nazisti «schiacciati» allora e quelli contro cui la Russia combatte oggi in Ucraina, esaltato la forza di una «immensa nazione unita e multietnica». E ha confortato le famiglie dei caduti annunciando per loro «cure e aiuti», oltre che un decreto presidenziale urgente per dare «un sostegno speciale ai figli dei compagni d’armi uccisi e feriti».

Qui sta forse una novità: pur senza quantificarle, il presidente russo ammette le perdite subite dal suo esercito dal 24 febbraio a oggi. Ma la scelta «inevitabile» di agire, ha spiegato, era dovuta alla «minaccia assolutamente inaccettabile creata proprio ai nostri confini». E dal rifiuto dell’Occidente di «firmare un trattato sulle garanzie di sicurezza», lo scorso dicembre, punto focale di «dialogo onesto alla ricerca di soluzioni che tenessero conto dei reciproci interessi. Tutto invano». E tutte qui «le premesse di uno scontro inevitabile con neonazisti e banderisti sostenuti dagli Stati uniti e dai loro tirapiedi». Quanto ai paesi Nato, «avevano piani diversi e lo abbiamo visto». Una mossa «preventiva» quindi, in cui la vera «invasione» è quella che si preparava ai danni della «madrepatria russa»

ANCHE SULLA PIAZZA ROSSA la “Z” si è vista poco sui petti tra la folla, Non sono mancati invece gli arresti, documentati a fatica via Telegram, di sparuti attivisti no-war che hanno sfidato con i loro cartelli il clima di pesante e commossa unanimità patriottica. «Neo-nazisti» anche loro, forse, come lo sono per il ministero degli Esteri russo quelli che hanno centrato con un secchio di vernice rossa l’ambasciatore Sergej Andreev durante le celebrazioni al cimitero di Varsavia.

Caricature hitleriane del nemico e ostentazione di sicurezza circa la «vittoria» che arriverà «molto presto» sono risuonate anche nel discorso di Zelensky e nelle parole dei vari membri del governo di Kiev sparpagliati tra notiziari, talk e conferenze. Il presidente ucraino in particolare ha parlato con un video nel quale, ripreso frontalmente da un mirabile movimento di carrello, avanza nella luce incerta dell’alba su un viale Khreschatyk deserto e sfigurato dai cavalli di frisia.

«NONOSTANTE L’ORDA, il nazismo, nonostante la mescolanza del primo e del secondo, che è l’attuale nemico, vinciamo, perché questa è la nostra terra», dice Zelensky. «Abbiamo vinto allora. Vinceremo ora». Di conseguenza «ci saranno due giorni della vittoria in Ucraina, mentre qualcuno non ne avrà nessuno».

Ne emerge, di qua e di là. uno stridore di simbologie piegate al pari della storia a paralleli propagandistici e confusivi, asserviti ai (troppo) reciproci interessi. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz se non altro ha lasciato cadere l’invito-provocazione del «passo potente» proposto da Zelensky e non si è fatto a vedere dalle parti di Kiev nel «Giorno della Vittoria» altrui. Ha preferito confrontarsi in videoconferenza con il presidente cinese Xi Jinping, il quale avrebbe sollecitato, un più «alto livello» di cooperazione che può «fare la differenza». E persino del «vero multilateralismo».