Mafia Capitale, il terremoto di Roma che rischia di travolgere Matteo Renzi e il suo Pd.

image

“Tutti a casa-tutti a casa” il grido dell’eterno 8 settembre italiano risuona nell’aula Giulio Cesare, lo ritmano rabbiosi sui banchi i consiglieri comunali del Movimento 5 Stelle mentre vengono letti i nomi dei supplenti che prendono il posto dei colleghi impediti (leggi: arrestati). Una bolgia che Ignazio Marino segue dallo scranno più alto del Campidioglio, prima con lo sguardo immalinconito, poi con un triste sorriso di circostanza.

Il sindaco di Roma esce, poi ci ripensa, rientra, si volta verso i contestatori con un’assurda aria di sfida, lancia baci, saluta, ride, sventola le dita alzate in segno di vittoria. In una città, la capitale d’Italia, in cui politici di tutti i colori si sono venduti per un pugno di euro a una banda di criminali, Mafia Capitale, «con noi sali in taxi e poi non scendi più», in cui nessuno ha vinto e tantissimi rischiano di schiantarsi.

A quell’ora, è il pomeriggio di martedì 9 giugno, a pochi metri di distanza, a Palazzo Chigi, Matteo Renzi è ancora fermo sulla linea stabilita al momento della nuova ondata di arresti e di indagati ordinati dalla procura di Roma. Puntellare la giunta Marino, che quasi tutto il Pd romano fino a qualche mese fa voleva rovesciare e oggi è difeso come il salvatore della patria.

Andare avanti perché, è il ragionamento che si sente fare dalle parti del premier, sciogliere il Comune e tornare a votare in tempi rapidi sarebbe una catastrofe di immagine per la capitale d’Italia, alla vigilia del Giubileo e con una candidatura alle Olimpiadi del 2024 da propagandare nel mondo.

In più, si rischia una sconfitta elettorale per il Pd di Renzi e una vittoria dei nomi che più forte di tutti invocano l’anno zero, la tabula rasa: Giorgia Meloni, Alfio Marchini, Alessandro Di Battista. Ma è una Maginot precaria, che si erode di ora in ora, di arresto in arresto, di rivelazione in rivelazione. «E ora aspettiamo la relazione del prefetto Franco Gabrielli», sussurra un ministro con un filo d’ansia. «Quanto margine di manovra può lasciare al governo per evitare l’avvio della procedura di scioglimento del Comune di Roma per mafia?»

Mafia Capitale, come avvenne nel 1992 a Milano nella prima parte dell’inchiesta Mani Pulite, si muove sul terreno degli affari cittadini, ma minaccia di salire su un livello nazionale. All’epoca saltò il Psi, lo storico partito socialista fondato cento anni prima, morto nella sua città di adozione, dei leader più amati e più temuti, da Filippo Turati a Bettino Craxi.

Oggi l’inchiesta del procuratore Giuseppe Pignatone nella sua prima fase, con l’accusa di associazione mafiosa per l’ex sindaco Gianni Alemanno, ha già decapitato la destra romana, nella città che ha visto crescere tra i giovani dell’Msi di Giorgio Almirante la classe dirigente arrivata ad occupare governo e istituzioni durante la Seconda Repubblica: Gianfranco Fini, Francesco Storace, Maurizio Gasparri, Alemanno, Domenico Gramazio, il padre di Luca, l’ex capogruppo in regione arrestato per le complicità con Buzzi.

La seconda fase dell’inchiesta, scattata con la retata nella notte tra il 3 e il 4 giugno, rischia di uccidere il Pd nella città in cui è nato: Roma. Romano è il fondatore e primo segretario del partito, Walter Veltroni, sindaco di Roma per sette anni, amareggiato per aver avuto accanto come vice-capo di gabinetto quel Luca Odevaine che oggi si svela essere la mente politicamente più acuta del gruppo criminale e la più efferata: «Se mi dai cento persone, facciamo un euro a persona, per dire… Se sono mille e ti chiedo due euro, è il minimo che ti posso chiede…», dice nelle intercettazioni parlando di immigrati da accogliere, con il gergo dello scafista che non opera sulle coste libiche ma nelle commissioni ministeriali.

Romano e padre padrone del partito per decenni è l’europarlamentare Goffredo Bettini che vede coinvolto nell’inchiesta il fedelissimo Maurizio Venafro.  Nell’ordinanza della procura viene nominato più volte come capo di gabinetto del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, ma è una definizione burocratica che non gli rende giustizia. Venafro è da più di vent’anni l’uomo più importante del partito romano.

Al fianco di Francesco Rutelli, Enrico Gasbarra, Piero Marrazzo, infine Zingaretti, ai vertici delle istituzioni romane, Campidoglio, Provincia, Regione. Amico di Maurizio Costanzo, con cui ha curato gli spettacoli nelle periferie. E se le cose fossero andate bene, sarebbe andato a Palazzo Chigi, nel 2001, quando Rutelli si candidò premier e Venafro era l’uomo che organizzava l’agenda della sua campagna elettorale. «Maurizio era tutto. Passava tutto da lui», sospira un dirigente storico del Pd romano. Le decisioni più importanti venivano prese nella casa di Bettini ai Parioli, in mezzo a leggendarie portate di pasta e fagioli. Ora è tutto finito. E Zingaretti che poteva costruire una leadership alternativa a Renzi sul piano nazionale deve difendersi dalla tempesta. In un Pd sotto shock dopo la notizia che a Salvatore Buzzi il tesoriere chiedeva un finanziamento per pagare gli stipendi ai dipendenti.

Romano è il presidente del Pd e commissario nella capitale Matteo Orfini, romani come lui alcuni parlamentari non indagati ma citati nelle carte dell’inchiesta: Umberto Marroni, Micaela Campana. Non c’è differenza tra maggioranza e minoranza, tutti uniti nell’imbarazzo. Alla direzione del Pd nazionale c’era un clima surreale, su Roma neanche una parola dei big, come avveniva nella Dc quando si parlava di Sicilia e di mafia. E c’è chi sospetta che il silenzio di Renzi si giustifichi con la volontà di approfittare dell’inchiesta per smantellare quel che resta del Pd romano dove non ha mai avuto molto peso. «Il partito toscano vuole usare Mafia Capitale per fare l’iniezione letale al partito romano», temono i notabili locali.

Ma su Roma nessuna indifferenza è possibile. Lo spostamento dell’inchiesta sul piano nazionale già sta toccando il governo Renzi: la vicenda del sottosegretario dell’Ncd Giuseppe Castiglione, indagato per il centro accoglienza immigrati di Mineo in Sicilia, fedelissimo del ministro Angelino Alfano, è solo il primo segnale che Mafia Capitale non resterà nei confini del raccordo anulare.

Un’escalation delle inchieste in Campidoglio e in Regione costringerebbe Renzi nella doppia veste di premier e di segretario del Pd a correre ai ripari per salvare Roma. Non esiste possibilità di vittoria futura per il partito della Nazione se cessa di vivere nella Capitale. E non c’è ripresa, crescita, uscita dal tunnel della crisi economica se Roma muore. Salvare Roma, programma molto ambizioso per Renzi che vorrebbe fare il sindaco d’Italia. E che invece comincia a temere quel tutti-a-casa, un grido che minaccia di irrompere fino alle stanze del governo.