Si è aperto il congresso del Movimento 5 Stelle, i cosiddetti Stati Generali. Oddio, congresso è una parola grossa: non avendo una struttura territoriale né un’organizzazione gerarchica degna di questo nome, senza vere e proprie mozioni, con due terzi dei rappresentanti ammessi in automatico, e cioè l’intera truppa degli eletti a ogni livello, dalle Camere all’europarlamento fino a consiglieri comunali e regionali (ovvero chi si sta appassionando alla carriera), diciamo che sarà un seminario di autocoscienza e di ratifica degli equilibri prestabiliti, più che un confronto serrato e aperto. La “base” grillina, 186 mila iscritti, si è espressa attraverso il solo filtro della piattaforma Rousseau. E’ ciò che resta dell’impianto originario di democrazia diretta ideato da Gianroberto Casaleggio, a cui il figlio Davide monta la guardia anche se ai ferri corti da tempo con la quasi totalità dei vertici, che vorrebbero relegarlo a mero fornitore di servizi telematici. Formalmente, nessuno dichiara superato il principio fondativo che attribuisce al popolo degli attivisti l’ultima parola. Nei fatti, in questa prima assemblea nazionale della sua storia, il M5S lo ha già rovesciato: congegnando un meccanismo a tre livelli, con i 305 delegati fra i quali avranno diritto di intervento 30 oratori che esprimeranno poi il futuro assetto dirigente, nella sostanza si è introdotto l’opposto principio della delega, sulla cui logica si sviluppa il sistema rappresentativo. Rappresentativo, va sottolineato, di appena 8 mila soggetti, equivalente al miserrimo numero di coloro che hanno aderito al percorso pre-assembleare.

Ma tutto sommato, questo è il meno. Senza ricorrere ai sacri testi di sociologia elitista (Pareto, Mosca, Michels), è evidente a chiunque sappia come gira il mondo che qualsiasi gruppo collettivo che intenda durare, a maggior ragione in politica, prima o poi è costretto a regolare il potere della minoranza che inevitabilmente si fa strada al suo interno, così da assicurargli una necessaria legittimazione. Tradotto: una svolta fisiologica da movimento a partito, dall’equivoco dell’uno vale uno alla realtà (in atto da sempre, a dirla tutta) di pochi che guidano i molti, dallo stato semi-liquido alla forma solida, insomma dall’improvvisazione permanente a una gestione razionale, si è fatta attendere anche troppo. Tutto il problema sta nel come e, più in profondità, nel perché si è giunti ora a scegliere una modalità di ripensamento che integrerà definitivamente la creatura di Beppe Grillo nella “normalità”.

Per cominciare, in queste settimane di lavori oscurati dalla pandemia il grande assente è stato proprio lui, il fondatore. Chi tace acconsente, recita il detto popolare. L’ex capo politico ha, di fatto, già dato via libera all’esito scontato dell’happening di sabato 14 e domenica 15 novembre, che vedrà vincere la maggioranza che s’identifica nel successore Luigi Di Maio. Non devono ingannare le divisioni in pseudo-correnti dai nomi insipidi (“Idee in movimento” di Nicola Morra, “Parole guerriere” di Dalila Nesci, “Da rivoluzione a evoluzione” di Stefano Buffagni), né le differenti sensibilità personali dei big, dalla Taverna alla Lombardi passando per Fico e Crimi: il corpaccione dei 5 Stelle finirà per disporsi in schiere superficialmente compatte dietro il vero dux, che era e rimane l’attuale titolare del ministero degli Esteri, passato dall’essere il più strenuo difensore del Conte 1 con la Lega, a diventare il più convinto assertore del rapporto preferenziale con il Pd, a cui si deve il rovesciamento di fronte nel Conte 2. E’ persino imbarazzante dover spiegarne la ratio: semplicemente rimanere in sella, garantendosi la continuità non solo nel mantenere il primo gruppo parlamentare – che altrimenti, in caso di elezioni anticipate, si ridimensionerebbe penosamente, e che invece assicura di tirarla lunga sino a fine legislatura – ma anche nell’istituzionalizzare e puntellare, grazie al crisma “congressuale”, la dirigenza della prima ondata. Ossia tutti i succitati ex novizi oggi ben più scafati e giunti, ormai, al fatidico doppio mandato.

Alessandro Di Battista

Ecco perché, nel dramma pentastellato, l’unico antagonista che ostacola la normalizzazione è Alessandro Di Battista: il solo a non aver partecipato all’ultima tornata e alla spartizione degli incarichi di governo, incarna il punto di riferimento di quanti si considerano fedeli all’originaria pulsione anti-sistema, e difatti è fermo sulla linea del Piave dell’inderogabile limite al secondo giro. I vari funghi spuntati a squartare il capello sulle regole e regoline statutarie, o a giocare alla divergenze di visione programmatica, danno invece tutta l’impressione di voler costruire una sceneggiata per coprire l’intenzione (per carità, lecita e comprensibile: la politica, asciugata all’osso, è lotta per il potere, senza il quale gli ideali evaporano come sogni ad occhi aperti) o meglio, la premeditata operazione di alzare una diga comune, di erigere una tacita coalizione contro il ribelle ostinato.

Popolarissimo fra i più ferventi grillini, Dibba, messo in tragica minoranza, perderà. Diciamo tragica perché lui sa benissimo che andrà così. E qui si apre l’interrogativo: accetterà di finire stretto nella camicia di forza della democristianissima “direzione collegiale” per ridurlo a più miti consigli e così, in pratica, mettergli la museruola, oppure, come afferma l’europarlamentare Nicola Pedicini (a lui vicinissimo, clamorosamente escluso dal dibattito finale degli Stati Generali), è già visibile all’orizzonte la scissione, con la nascita di una “rifondazione grillina” sollevando la bandiera del ritorno alle origini (o magari al futuro, visto che troppo poco si è quagliato rispetto alle millenaristiche premesse iniziali)? Preferirà ritagliarsi lo spazio, arduo e faticoso da giocare a lungo termine, del dissidente che punta all’avvicendamento al prossimo turno, o sceglierà di tagliare i ponti e dedicarsi ad altro, il che potrebbe anche consistere in qualche progetto non strettamente politico, bensì metapolitico, di semina, di reclutamento,  di preparazione in attesa di tempi migliori?

Luigi Di Maio

Il suo programma, in effetti, fra tutti è quello che si avvicina di più al corpus di aspirazioni, a lunga gittata, disordinate, a volte utopistiche ma di inoppugnabile carica dirompente che caratterizzava i primordi del Movimento, quando Grillo era Grillo e non si era ancora convertito alla realpolitik al ribasso. Il profilo dibattistiano d’interprete più affezionato alla linea allergica ai compromessi è confermato dalle sue uscite di questi giorni, le più dure contro i Benetton (leggi: farla finita con gli appeasement del Pd e i collaborazionismi di Renzi), le più polemiche con la Lega (attenzione, non sull’inesistente “fascismo” ma sul presunto sovranismo di cui Salvini sarebbe falso profeta, attribuendosi implicitamente il ruolo, su questo terreno, di concorrente diretto), le più forti anche semanticamente, con quel ripescaggio della parola “rivoluzionario” che vale come chiamata alle armi per gli scontenti e gli afflitti di questo infame periodo storico.

Sull’altra barricata, al contrario, il ponderoso documento (54 pagine) preparato dalla senatrice Barbara Floridia e sposato da Di Maio dimostra, come meglio non si potrebbe, prima facie, l’operazione di maquillage, stile grandi paroloni e poca ciccia, con cui è occultata l’alchimia in grigio del neo-grillismo di poltrona con scappellamento a sinistra. Materialmente scritto dal sociologo Domenico De Masi, il testo intitolato “Dopo il coronavirus. La cultura politica del Movimento 5 Stelle” avrebbe un’ambizione da manifesto ideologico avanzatissimo, portatore di novità sconvolgenti, tutto proteso all’avvenire. E invece ripropone, fra l’altro qua e là confessandolo pure, la ricetta della più classica socialdemocrazia, anzi, di un mai prima d’ora udito “socialismo liberale” alla Rosselli, giusto compensato in positivo dal pallino demasiano (questo sì in sintonia con i fremiti più controcorrente del pensiero alternativo), del Tempo come unità di misura del benessere autentico, che è esistenziale e non riducibile al reddito d’acquisto o al conto in banca.

Facciamo una carrellata, nella profluvie di perentorie previsioni sprizzanti ottimismo da tutte le virgole (roba da far invidia a un undicenne ancora credente nella fluente barba di Babbo Natale): “l’ideologia capitalista andrà in crisi lasciando spazio a modelli ibridi, impropriamente definiti ‘capitalismo sociale’, ‘capitalismo green’, o ‘capitalismo egualitario’”, definibili invece come “decrescita serena” o “felice” (qui, detto en passant, si evince tutta l’ingenuità politica non solo di De Masi, ma anche dei suoi committenti, che lasciano fuoriuscire pubblicamente una parola d’ordine facilmente criminalizzabile, ma al tempo stesso consci di quanto sia inservibile, dal momento che nessuno mai voterà a favore della decrescita, per quanto felice, per quanto eticamente ragionevolissima); nella “società futura ci sarà un riposizionamento etico dell’economia che salvaguarderà sia il capitale che il lavoro”, addirittura fino “all’assenza di lotta di classe… senza squilibri egemonici e senza violenza”, venendo meno “la versione spietata del capitalismo” perché si andrà verso un “nuovo localismo”, insufflato dalla “singolare convergenza di interessi delle classi a reddito medio-basso ma stabile (statali, dipendenti privati, piccole imprese mono-committente)”: bla bla bla puramente onirico, perché la scomparsa delle classi otto-noventesche non elimina il conflitto sociale in sé, né tanto meno promette di risolversi in un’armonia bucolica naturale, coi lupi che abbracciano gli agnelli; e ancora: la bussola non può che essere la Costituzione (che si presuppone intoccabile, tipo Corano), il valore-cardine è la “solidarietà” (ma quando si capirà che semmai a doversi perseguire non è un sentimento, di incerta prescrizione, ma semmai il dovere di giustizia sociale?), “nuove” idee sono “l’economia solidale, la finanza etica, il consumo critico, il commercio equo, il pensiero ecologico e affini” (corrette sì, nuovissime non proprio, oltre che di una genericità deprimente), e, finalmente più nel concreto, la fedeltà canina alla Ue (“impensabile” uscire, scritto così, apoditticamente), la democrazia diretta rimpicciolita a inoffensivi “referendum consultivi”, l’”apporto dell’immigrazione” a colmare i vuoti della denatalità, l’incentivo all’ambiguo smart working e alla didattica a distanza (“anche se l’empatia resterà insostituibile” – e vorremmo vedere), ma anche, ullalà, si torna all’antico, un reddito di cittadinanza “universale” e in più uno “per i giovani”, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, una botta di assunzioni nel pubblico impiego (dipende dove e come – spoiler alert: possibile clientelismo elettorale), l’equivicinanza a Stati Uniti e Cina (“senza però compromettere il Patto Atlantico”, non sia mai). Dal libro del profeta De Masi, che non fa i conti né con i conti finanziari, commissariati de facto dall’amata Ue, né soprattutto con il cinismo dei maggiorenti dimaiani, i quali danno in pasto ai convenuti alla messa grillina queste fughe in avanti, alcune delle quali ardite come un tempo, che però in bocca loro, realisti marci e dorotei di ritorno, emanano un odore d’ipocrisia da svenimento.

Ma forse, la formula che rende di più l’involuzione mascherata dei 5 Stelle governisti a tutti i costi, è in quel “lusso morigerato” che verso la fine illumina con comica sintesi l’ossimoro di una forza sorta per sabotare gli ingranaggi dell’oligarchia e  che adesso, coprendosi scopertamente di retorica, si avvia a farsi oligarchia a sua volta. Per altro in posizione subalterna, arto appena più mobile di quel morto che cammina e che vampirizza sangue che è il centrosinistra (fratello gemello di un centrodestra che abbaia ma non morde, in revival liberal-liberista uguale e contrario, europeista scettico ma pur sempre europeista, cioè euro-schiavo). I grilli non zompano più. E si sapeva. Ora sappiamo che vogliono mutarsi in cimici, gli insetti più invadenti, infidi e insulsi dell’universo.

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