Luzi e gli amici di navigazione

Il libro Non solo intellettuale solitario ma uomo a tutto tondo incline ad affetti e a condivisioni anche profondeLa nuova monografia sul poeta di Daniele Piccini ci restituisce l’umanità del «padre dell’ermetismo fiorentino»

di Roberto Barzanti

Imbarcarsi con Mario Luzi (1914–2005) per seguirne, anno dopo anno, il frastagliato viaggio, era impresa tanto invitante quanto avventurosa. Malgrado la mole di scritti che sulla sua opera si sono accumulati occorreva in apertura storicizzare un’esperienza che ha attraversato una screziata serie di ambiti e di discipline: dagli esordi propriamente lirici alla passione civile degli ultimi tempi, comprensiva di affilati interventi teorici, dichiarazioni di poetica, drammi teatrali, ritratti letterari, analisi critiche, corsi accademici, elzeviri giornalistici, quadri autobiografici, irate invettive.

Ricostruire una rotta così variegata mettendone in evidenza continuità e fratture, fedeltà e innovazioni, richiedeva un’esplorazione sostenuta da penetrante rigore filologico: la devota monografia di Daniele Piccini (Luzi , pp. 364, 24 euro, Salerno, Roma 2020) risponde a questa esigenza di movimentata unitarietà. Anzitutto colloca la figura di Luzi in un gruppo di autori legati da intensi scambi e da salde amicizie, sottraendolo alla solitaria ieraticità che sovente l’avvolge. Lo immette in una rete vivace di interlocuzioni e punti di vista. E le vicissitudini del poeta non si iscrivono nei moduli di una biografia seccamente intellettuale. Vengono evocati affetti e vuoti, progetti editoriali e modalità di ricezione. Al respiro generale dei primi due capitoli seguono le sezioni dedicate a poesia, teatro, prose creative e prose saggistiche, sgranate in serrato ordine cronologico.

Luzi appartenne ad una «generazione forte». Se riconobbe in Carlo Betocchi il suo «solo umile maestro», ebbe in Vittorio Sereni e in Giorgio Caproni gli amici di navigazione più prossimi. Praticò la poesia come un macerante speculare: «qualcosa nel profondo cantava e solo per quella via trovava la sua affermazione nello stesso tempo che la sua liberazione». Protagonista dell’«ermetismo fiorentino», lo declinò in chiave europea, innestandovi eleganti maniere simbolistiche: «la Madonna dagli occhi trasparenti / scende adagio incontro ai morenti, / raccoglie il cumulo della vita, i dolori / le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita». La religiosità di un «cattolicesimo interiore» originava icone e atmosfere dalle quali traspariva il desiderio di trarre luce dall’oscurità del moderno: «l’ansia dell’assoluto era il nostro crogiuolo esistenziale». La franca dichiarazione non era esplicitata solo a titolo individuale. A fronte del regime fascista Luzi, con i sodali del Frontespizio o con i battaglieri redattori dell’effimero Campo di Marte di Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, opponeva un ritrarsi che alludeva ad un dissenso discreto, ad una spirituale autonomia. È la prima stagione di un itinerario lungo il quale le metamorfosi non smentiranno le costanti.

La data cruciale di svolta è il 1945, il testo che emblematicamente ne fissa i tratti è L’inferno e il limbo. La perentoria provocazione dell’attacco attesta l’inquietudine che induce Luzi a fuoruscire dall’obbligato recinto ermetico: «La nostra letteratura procede piuttosto da Petrarca che da Dante; in ogni modo si sviluppa sull’esempio del primo più assai che su quello del secondo». Ne derivava l’urgenza di un confronto più diretto con la realtà nuova che stava emergendo.

Alla rattristata chiusura della sconfitta doveva far seguito l’intelligenza delle controversie che animavano un mare in tempesta e Dante era chiamato a far da guida: «si può essere – afferma Luzi – agli antipodi dalle motivazioni dottrinali e dalle credenze di Dante e non per questo estraniarsi dall’avvenimento continuo e profetico della voce del poeta». Fu con Nel magma (1963) che si aprì, sconvolgente, il secondo tempo del viaggio. In proda al Bisenzio un lavoratore apostrofa il pellegrino: «Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta / quando divampava e ardevano nel rogo e bene e male». Il brusco rimbrotto è gridato con empito prosastico. Nei versi trova ospitalità un usuale e risentito lessico. È la fase culminante dell’opera di un autore che non esita a misurarsi con strutture diegetiche, con afflussi di memoria, con tensioni sociali, in coraggioso equilibrio tra fisicità e metafisica. Il sistema filosofico che più lo coinvolgerà e sembra interpretare un’inarrestabile ansia è quello di Teilhard de Chardin, che nell’indagine sull’evoluzione del cosmo coglie «l’Essere nel trasmutare, il maturare attraverso i tempi dell’unico e universale avvenimento, destinato infine a ricapitolarsi nella rivelazione piena e flagrante del divino». Lo scientismo dei fanatici del progresso è condannato. Una cosmogonica sete di conoscenza non può contraddire il candore estatico che ti afferra quando tenti di collegare terrestre e celeste.

Giustamente Piccini convoca quale asse portante della Weltanschauung (concezione della vita ndr.) luziana la teologia di Paolo e segnatamente il dettame della Lettera ai Romani (8: 22): «… una speranza visibile non è speranza, perché ciò che si vede come si può ancora sperare? Noi speriamo ciò che non vediamo e attendiamo pazientemente». E non sorprende il sempre più fitto dialogo con Leopardi, che sta sulla soglia di un tempo che soffre «la caduta del sogno umanistico», tempo di domande non di certezze.

A Caterina Trombetti, che assisté con amorevole premura «l’estremo principiante», Luzi confiderà: «Il poeta individuale, confessionale, legato intrinsecamente ai suoi problemi, per me non ha avuto mai una vera attrazione». E ancora, non temendo di immischiarsi in contingenti controversie, a proposito di Aldo Moro: «Avevo una certa simpatia, una speranza per la sua opera, soprattutto per il suo grande disegno di ricomporre la diarchia tra comunismo e cattolicesimo». Ma qui travalichiamo la compatta monografia di Daniele Piccini e lo smarrimento dall’ultimo, del terzo Luzi, onorato con tanto di laticlavio senatoriale. La barca del lungo viaggio non aveva attraccato ad un porto sicuro: come avrebbe potuto, erosa da furiosi marosi e aggredita da violente bufere e acuminate saette? Un’utopica nostalgia dei sentimenti primi, dei «fondamenti invisibili», si fa strada in una dizione sfiatata e orante, biblicamente scandita in frementi versetti: «vita che sempre ti diffondi / e sempre al tuo principio ti ricongiungi». Per conquistare ascolto da un pubblico partecipe la poesia, avverte Luzi congedandosi, dovrebbe attingere la semplicità perduta, la tradita naturalezza. E l’attività politica, «lo comune incarco» — affermò con mite calore nel discorso pronunciato al Consiglio regionale della Toscana il 29 febbraio 2000 — dovrebbe prefiggersi di «rendere lo Stato più umano e, oserei dire, fraterno, la sua necessità meno gelida, la sua motivazione affabile».

 

 

CorriereFiorentino: corrierefiorentino.corriere.it

 

Fotografia dal web (se la pubblicazione viola eventuali diritti d’autore, vi chiediamo di comunicarcelo e provvederemo immediatamente alla rimozione)