Il caso
Anno nuovo. Vecchie favole.
Roma ha imparato a sue spese quanto la narrazione della sindaca Virginia Raggi sia lontana dalla verità dei fatti. Che il tema sia le municipalizzate, piuttosto che il bilancio, i rimpasti di Giunta, l’emergenza rifiuti, o il grottesco Natale di Spelacchio. Dal giorno della sua elezione, Raggi, e con lei il Movimento Cinque Stelle, vivono di quello che, nel gergo della politica, si chiama, con anglicismo, spin.
Il “giro” che dissimula.
E, a Roma, più prosaicamente, cojonare. La manomissione della realtà che fa dire ai fatti qualcosa di diverso o di opposto a ciò che significano. Ebbene, ci risiamo. I segue dalla prima pagina Attesa martedì prossimo 9 gennaio in tribunale, dove un giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto decidere se mandarla o meno a processo per il falso ideologico di cui è accusata per aver mentito sulle circostanze della nomina a direttore del Dipartimento Turismo del Campidoglio di Renato Marra, fratello del più celebre Raffaele (fino al giorno del suo arresto per corruzione, il Rasputin della sindaca), Raggi muove di anticipo. E in un post sulla sua pagina Facebook scrive: «Ciao a tutti. Volevo informarvi che ho chiesto al tribunale di Roma il giudizio immediato nel procedimento aperto nei miei confronti dalla Procura capitolina. Desidero che sia accertata quanto prima la verità giuridica dei fatti. Sono certa della mia innocenza e non voglio sottrarmi ad alcun giudizio. Ho piena fiducia nella giustizia e credo fermamente che la trasparenza sia uno dei valori più importanti della nostra amministrazione».
Edificante. Se non fosse, appunto, una favola.
Buona da ammannire a chi non traffica in codici e pandette (9 elettori su 10) e non ha che un pallido ricordo della faccenda di cui si parla. Con la richiesta di giudizio immediato, infatti, Raggi prende due piccioni con una fava. Il primo piccione. La richiesta di giudizio immediato obbliga il giudice ad aggiornare la decisione di fronte a un altro gup. Il che, date le pendenze del tribunale di Roma, significherà fissare una nuova udienza a ridosso dell’estate. Con un risultato: l’effetto politico del processo resterà congelato fino a dopo le elezioni politiche del 4 marzo. E solo a babbo morto si comincerà pubblicamente a discutere in un’aula di tribunale la non edificante e assai poco trasparente vicenda della nomina di Renato Marra. Un tipo promosso dalla sindaca direttore del Dipartimento Turismo in accordo con il fratello Raffaele che, essendo allora responsabile del Personale dell’intera amministrazione capitolina e dunque in luminoso conflitto di interessi, non avrebbe dovuto mettere mano alla pratica. Nessuna “giustizia celere”, dunque. Piuttosto, una “giustizia prêt-à-porter “, cucita sul calendario elettorale.
Il secondo piccione. Per la nomina di Renato Marra, con Raggi è coindagato Raffaele Marra, ma per un reato diverso: l’abuso di ufficio. Ebbene, con il giudizio immediato, le due posizioni verranno separate. Si celebreranno due distinti processi, di fronte a due distinti giudici. E questo metterà Raggi in una posizione meno scomoda di quanto non sia stata sin qui. Per salvare se stessa potrà infatti accusare Raffaele Marra evitando di farlo nella stessa aula e di fronte allo stesso giudice che avrebbe dovuto decidere su entrambi. Perché delle due l’una: o in quella nomina sono colpevoli entrambi (lei di aver mentito all’Autorità anticorruzione sostenendo di essere stata la sola responsabile di quella decisione; lui, Raffaele Marra, di aver abusato perché in conflitto di interessi). O è il solo Marra l’uomo nero. Responsabile sia della macchinazione che doveva servire alla nomina del fratello, sia dell’inganno ai danni dell’ingenua sindaca. Convinta di aver fatto tutto da sé e invece portata per mano come una scolaretta. Bugiarda “a sua insaputa”, come nel migliore dei classici.
Roma ha imparato a sue spese quanto la narrazione della sindaca Virginia Raggi sia lontana dalla verità dei fatti. Che il tema sia le municipalizzate, piuttosto che il bilancio, i rimpasti di Giunta, l’emergenza rifiuti, o il grottesco Natale di Spelacchio. Dal giorno della sua elezione, Raggi, e con lei il Movimento Cinque Stelle, vivono di quello che, nel gergo della politica, si chiama, con anglicismo, spin.
Il “giro” che dissimula.
E, a Roma, più prosaicamente, cojonare. La manomissione della realtà che fa dire ai fatti qualcosa di diverso o di opposto a ciò che significano. Ebbene, ci risiamo. I segue dalla prima pagina Attesa martedì prossimo 9 gennaio in tribunale, dove un giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto decidere se mandarla o meno a processo per il falso ideologico di cui è accusata per aver mentito sulle circostanze della nomina a direttore del Dipartimento Turismo del Campidoglio di Renato Marra, fratello del più celebre Raffaele (fino al giorno del suo arresto per corruzione, il Rasputin della sindaca), Raggi muove di anticipo. E in un post sulla sua pagina Facebook scrive: «Ciao a tutti. Volevo informarvi che ho chiesto al tribunale di Roma il giudizio immediato nel procedimento aperto nei miei confronti dalla Procura capitolina. Desidero che sia accertata quanto prima la verità giuridica dei fatti. Sono certa della mia innocenza e non voglio sottrarmi ad alcun giudizio. Ho piena fiducia nella giustizia e credo fermamente che la trasparenza sia uno dei valori più importanti della nostra amministrazione».
Edificante. Se non fosse, appunto, una favola.
Buona da ammannire a chi non traffica in codici e pandette (9 elettori su 10) e non ha che un pallido ricordo della faccenda di cui si parla. Con la richiesta di giudizio immediato, infatti, Raggi prende due piccioni con una fava. Il primo piccione. La richiesta di giudizio immediato obbliga il giudice ad aggiornare la decisione di fronte a un altro gup. Il che, date le pendenze del tribunale di Roma, significherà fissare una nuova udienza a ridosso dell’estate. Con un risultato: l’effetto politico del processo resterà congelato fino a dopo le elezioni politiche del 4 marzo. E solo a babbo morto si comincerà pubblicamente a discutere in un’aula di tribunale la non edificante e assai poco trasparente vicenda della nomina di Renato Marra. Un tipo promosso dalla sindaca direttore del Dipartimento Turismo in accordo con il fratello Raffaele che, essendo allora responsabile del Personale dell’intera amministrazione capitolina e dunque in luminoso conflitto di interessi, non avrebbe dovuto mettere mano alla pratica. Nessuna “giustizia celere”, dunque. Piuttosto, una “giustizia prêt-à-porter “, cucita sul calendario elettorale.
Il secondo piccione. Per la nomina di Renato Marra, con Raggi è coindagato Raffaele Marra, ma per un reato diverso: l’abuso di ufficio. Ebbene, con il giudizio immediato, le due posizioni verranno separate. Si celebreranno due distinti processi, di fronte a due distinti giudici. E questo metterà Raggi in una posizione meno scomoda di quanto non sia stata sin qui. Per salvare se stessa potrà infatti accusare Raffaele Marra evitando di farlo nella stessa aula e di fronte allo stesso giudice che avrebbe dovuto decidere su entrambi. Perché delle due l’una: o in quella nomina sono colpevoli entrambi (lei di aver mentito all’Autorità anticorruzione sostenendo di essere stata la sola responsabile di quella decisione; lui, Raffaele Marra, di aver abusato perché in conflitto di interessi). O è il solo Marra l’uomo nero. Responsabile sia della macchinazione che doveva servire alla nomina del fratello, sia dell’inganno ai danni dell’ingenua sindaca. Convinta di aver fatto tutto da sé e invece portata per mano come una scolaretta. Bugiarda “a sua insaputa”, come nel migliore dei classici.