L’ultima battaglia femminista

di Linda Laura Sabbadini
Èda anni che si cerca di approvare una legge contro l’omofobia e contro la transfobia. L’Istat certificò nel 2011 l’esistenza di una situazione di discriminazione per orientamento sessuale più grave per le persone transessuali. È quindi assolutamente auspicabile che si riesca ad affrontare con decisione la questione anche da un punto di vista normativo. La omotransfobia deve essere messa al bando, tutti i cittadini devono poter essere liberi di vivere la propria sessualità come credono, per come si sentono, salvo nel caso di commettere reati come violenza sessuale, fisica, psicologica, pedofilia.
Per un motivo o per un altro la legge si è sempre fermata e ora bisogna dare una svolta. Una questione però crea non pochi problemi soprattutto tra le donne: bisogna nominare sesso o genere? Non è una questione da poco e anzi, la discussione è molto viva non solo nel nostro Paese, ma anche in altri Paesi avanzati. Il termine sesso, infatti, si riferisce alle caratteristiche biologiche e genetiche con cui si nasce. Ma quando si parla di genere si identifica qualcosa che i movimenti delle donne hanno sempre combattuto, ovvero quella gabbia di stereotipi in base ai quali sono costruiti i privilegi maschili. Il dibattito è molto acceso, al punto che “Se non ora quando” ha lanciato una lettera-appello ai firmatari e alle firmatarie del disegno di legge perché sia eliminato il riferimento all’identità di genere. Le persone transgender, però, quando parlano di genere si riferiscono a una esperienza così come la sentono, personalmente a prescindere dal sesso di nascita. Ma molte donne ritengono che questa definizione metta in pericolo i loro diritti conquistati a caro prezzo. Nel Regno Unito è appena stata respinta una norma che prevede la libera autoattribuzione del genere. Negli Usa la preoccupazione delle donne è legata alla possibilità che gli uomini abusino di queste norme per esempio impossessandosi delle quote riservate al sesso femminile faticosamente conquistate. In Spagna nel Psoe c’è stata analoga discussione. Ed è assolutamente comprensibile perché stiamo parlando della metà del genere umano che cerca di liberarsi dalle catene degli stereotipi e dalla prepotenza maschile. Viviamo d’altro canto in una società complessa, dove emergono stili di vita variegati, un mondo globale all’interno del quale le identità sono multiformi e anche fluide. L’identità è una costruzione sociale in divenire, le vite non sono più prescritte in maniera rigida. Una società democratica deve farci i conti, deve saper dare risposte, individuare vie d’uscita e soprattutto garantire diritti. A tutti, nessuno escluso, anche se i comportamenti non piacciono. Così come li garantiamo a chi la pensa diversamente da noi, oppure professa una religione diversa o ha un altro colore della pelle. La Costituzione vieta la discriminazione. Legiferiamo per far sì che la realtà sia più vicina ai dettami costituzionali. E allora pongo una domanda: perché usare termini che possono risultare divisivi come identità di genere e suscitare inquietudine in molte donne che pure sono contro ogni discriminazione? Non è il momento di dividersi. Anzi è il momento di essere uniti in questa battaglia dei diritti.
Bisogna essere coscienti che ormai i cambiamenti culturali sono velocissimi e spesso fluide le identità, e tutto questo deve essere rispettato e riconosciuto. Non possiamo essere ancorati al passato. Ma non servono neanche sovrastrutture ideologiche. Bisogna essere aperti con le nostre menti e cercare le strade più adeguate. Battersi per i diritti è una grande sfida ed è anche molto complesso. Ora molte donne temono affermazioni a discapito dei loro diritti. E siccome certamente non è questa l’intenzione di chi ha presentato la legge, troviamo la soluzione nell’interesse di tutti. Troviamo la sintesi. Rispettiamo i differenti punti di vista. Si può fare rispettando le esigenze di tutti.
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