La controprova si è avuta ieri, proprio nella capitale belga e europea. In conferenza stampa, ai margini della riunione dei ministri finanziari, il titolare dell’Economia, Pier Carlo Padoan, è stato martellato di domande. Si voleva sapere come valutasse la pretesa renziana di mantenere il 2,9 per cento nel rapporto deficit/Pil per i prossimi cinque anni: una tesi che violerebbe i patti, e ha già ricevuto risposte quasi sprezzati dai vertici della Commissione. Ebbene, alla fine Padoan è stato costretto a dire: «Non mi riguarda. Mi si chiede un commento su un giudizio espresso esternamente al governo». E, per essere più chiaro, ha aggiunto che la legge di bilancio sarà «coerente» con gli impegni presi.
Si tratta di una precisazione che formalizza le distanze tra la politica economica del Pd, e quella dell’esecutivo di Gentiloni; e che viene solo diplomatizzata dalla precisazione di Padoan sulle ragioni di Renzi in materia di debito da abbattere con la crescita. Infatti, dice, «è una cosa della prossima legislatura». Ma il problema è solo rinviato. Disegnare, come fa il segretario del Pd, un dopo-elezioni di scontro con gli alleati europei, ipotizzando un governo di legislatura assai improbabile con l’attuale sistema elettorale, significa seminare allarme. Accredita un’Italia a due voci, che con Palazzo Chigi vuole l’accordo; coi partiti di maggioranza si prepara a disdirlo.
Il risultato di questo movimentismo estivo è di accentuare il fastidio europeo nei confronti del nostro Paese; e insieme il disorientamento di un elettorato al quale non riesce facile capire perché il Pd attacchi, di fatto, il proprio governo. A meno che i fuochi d’artificio di questi giorni, oltre che a motivi editoriali, non siano legati alla speranza irresponsabile di un incidente parlamentare: magari sullo ius soli in un Senato in bilico. Significherebbe la crisi di governo; e, di nuovo, il tentativo di arrivare a elezioni anticipate prima di quelle in Sicilia che si profilano come forche caudine per il Pd.
Forse l’insistenza di alcuni renziani affinché il presidente del Senato, Piero Grasso, accetti di candidarsi al vertice della regione, si spiega su questo sfondo. Ma probabilmente sono solo malignità di quanti non amano l’attuale vertice dem. E gli attribuiscono intenzioni così azzardate e inverosimili da dovere essere prese con le molle. Sono le stesse voci che attribuiscono alla cerchia renziana un altro progetto-limite: quello di accarezzare di nuovo l’idea di un decreto del governo per cambiare il sistema elettorale senza passare per un voto del Parlamento. Sanno tutti che una forzatura del genere sarebbe impedita dal Quirinale.
fonte: Corrieredellaserahttp://www.corrieredellasera.it