Aleksandr Solzenicyn ha ottenuto il Premio Nobel per la letteratura cinquant’anni fa, nel 1970, ma lo andrà a ritirare quattro anni dopo, dopo aver subito l’esilio dall’Unione Sovietica. Nel suo discorso di accettazione, tra l’altro, Solzenicyn scrive: “L’arte, incontaminata dai nostri sforzi, non si allontana dalla sua vera natura, ma in ogni occasione e ogni volta che appare, ci mostra una parte della sua luce segreta. Riusciremo mai a cogliere l’interezza di questa luce? Chi può osare dire di aver definito l’arte in tutte le sue innumerevoli sfaccettature?… Attraverso l’arte siamo visitati a volte – brevemente, con fragilità – da rivelazioni che non possono darsi con il pensiero razionale”.

Rivelazione meridiana. Tiggì di Rai 2. Un paio di anni fa. Ricordano i dieci anni dalla morte di Solzenicyn. Non è neanche l’ultima notizia, quella di scarto, che nessuno ascolta, con il boccone in gola. Come mai?, mi dico, di solito non ricordano lo scrittore neanche quando muore, figuriamoci lo scampanio dell’anniversario. Nel servizio campeggia una sola immagine: Solzenicyn con un barbone tolstojano che dialoga amabilmente con Vladimir Putin. Al di là delle simpatie, la comunicazione mi pare semplice e aberrante: lo scrittore esiste se dialoga con l’emblema del potere (poco importa che i valori siano ribaltati, che sia Putin a inchinarsi al cospetto di Solzenicyn), lo scrittore è servo del potere. Che paradosso: Solzenicyn, infatti, semmai, è l’icona della lotta contro il potere. Quello sovietico comunista. Il genio di Solzenicyn – che avrebbe voluto essere il Tolstoj del sistema carcerario sovietico, il grande aedo degli inferi russi – è aver inventato un ‘genere’. Arcipelago Gulag è un agghiacciante, informato, cinico, radicale reportage. Ma ha il passo appassionato del romanzo. La letteratura ‘di denuncia’ – per sua natura, storica e contingente, degradabile e degradante – diventa, qui, epica del dolore e della compassione.Sarà imitatissimo.

Di Solzenicyn è stato fatto un totem – forse con l’intento di squalificare lo scrittore, di rabbonire le sue accuse. Solzenicyn, di norma, abbatteva i totem: è spietato, ad esempio, contro Maksim Gor’kij, il grande scrittore, “il maggiore scrittore russo”, l’ideatore del ‘realismo socialista’. “Fu il 20 giugno 1929. Il celebre scrittore scese a terra nella baia della Prosperità… lui sì che parlerà chiaro! lui sì che darà loro una lezione! lui sì che ci difenderà! Gor’kij era atteso quasi come un’amnistia generale”. Gor’kij, invece, impaniato nel potere, “attraversò a grandi falcate i corridoi di alcuni convitti. Tutte le porte delle stanze erano spalancate, ma egli non vi entrò quasi mai”. Terribile lo sketch che racconta Solzenicyn poco dopo. “Arrivarono nella colonia infantile. Com’è tutto civile! Ognuno su una branda separata, con il materasso. Tutti sono timidi, tutti sono contenti. D’un tratto un ragazzo di quattordici anni dice, ‘Senti, Gor’kij. Tutto quello che vedi non è vero. Vuoi sentire la verità? Te la devo raccontare?’ Sì, annuisce lo scrittore. Sì, vuol conoscere la verità. (Ah, ragazzino, perché guasti il benessere appena acquisito dal patriarca della letteratura… Un palazzo a Mosca, una tenuta nei dintorni della capitale…)… Gor’kij esce dalla baracca sciogliendosi in lacrime… Il 22 giugno, dopo la conversazione con il ragazzo, Gor’kij lasciò la seguente annotazione nel ‘Libro dei visitatori’, appositamente cucito per l’occasione: ‘Non sono in grado di esprimere in poche parole le mie impressioni. Non vorrei, e sarebbe vergognoso, ricadere in stereotipati elogi della stupefacente energia di uomini, i quali, essendo attenti e indefessi guardiani della rivoluzione sanno essere, insieme, creatori straordinariamente arditi della cultura’. Il 23 Gor’kij partì. Non appena il suo piroscafo salpò il ragazzino fu fucilato”. Solzenicyn mette alla corda la protervia e l’impudica ipocrisia di Gor’kij, emblema di una intera classe di letterati sovietici, servi del potere costituito. Solzenicyn non c’era, quel giorno del 1929, aveva 11 anni, viveva l’esproprio delle proprietà familiari da parte dei ‘rivoluzionari’ rossi. La forza patetica del suo linguaggio, però, ci fa vivere quel fatto in ‘presa diretta’.

Gli scrittori russi sono eccentrici. Vladimir Nabokov fuggì dalla Russia poco dopo la Rivoluzione: riteneva che la letteratura fosse un affare ‘formale’, senza alcuna implicazione etica. Iosif Brodskij, il poeta premiato con il Nobel per la letteratura nel 1987, pur essendo ben più giovane di Solzenicyn – nasce nel 1940 – fugge da Mamma Russia, dopo essere stato processato e mandato ai lavori forzati, prima di lui, due anni prima, nel 1972. A Brodskij non piacevano i libri di Solzenicyn. Gli rimproverava la “palese incapacità di scorgere, dietro il più crudele sistema politico di tutta la storia del cristianesimo, il fallimento umano, se non il fallimento della stessa dottrina religiosa (e questo valga per il severo spirito dell’ortodossia!). Data la sproporzione dell’incubo storico che Solzenicyn descrive, questa incapacità è di per sé talmente vistosa da far sospettare un’interdipendenza tra il conservatorismo estetico e la resistenza alla nozione di un’intrinseca, radicale malvagità dell’uomo”. Il poeta, come sempre, va all’origine prima, al cuore delle cose.

Nato l’11 dicembre 1918, morto nel 2008, Aleksandr Solzenicyn ha ottenuto il Nobel per la letteratura nel 1970

Solzenicyn, pur riconoscendo la preminenza, la prelibatezza dell’esperienza vissuta da Varlam Salamov (“L’esperienza di Salamov nei lager è stata più amara e più lunga della mia… a lui e non a me è stato dato in sorte di toccare il fondo di abbrutimento e disperazione verso cui ci spingeva tutta l’esistenza quotidiana nei lager”), pur chiamandolo, in un istante, “fratello”, gli rimproverò di aver ‘abiurato’ pubblicamente la propria opera (“Il 23 febbraio 1972 ha ritrattato sulla Literaturnaja Gazeta – perché, se tutte le minacce erano ormai passate? – ‘La problematica dei Racconti di Kolyma è ormai da tempo superata dalla vita’… e così abbiamo tutti capito che Salamov era morto”). Arcipelago Gulag contiene un discreto numero di ‘frecciate’ a Salamov: come mai? Cosa dà diritto a un uomo come Solzenicyn di giudicare la vita e le scelte di Salamov? Esiste forse una classifica nel dolore? Probabilmente Solzenicyn riconosce nei Racconti di Kolyma un’opera formalmente – e perciò, eticamente – più alta di Arcipelago Gulag.

Quando Solzenicyn pubblica Una giornata di Ivan Denisovic, nel 1962, il libro con cui, per la prima volta, viene raccontata la vita nei Gulag, Varlam Salamov piglia carta e penna. “Cos’è quel gatto che secondo lei gira per l’infermeria? Perché non è stato ancora sgozzato e mangiato?”. A Boris Pasternak – il suo idolo poetico, ma a cui rimprovererà la modestia del Dottor Zivago – Salamov scrive: “L’essenziale è nella corruzione della mente e del cuore, quando giorno dopo giorno l’immensa maggioranza delle persone capisce sempre più chiaramente che in fin dei conti si può vivere senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe, ma anche senza amore né senso del dovere. Tutto viene a nudo, e l’ultimo denudamento è tremendo… la nostra epoca è riuscita a far dimenticare all’uomo che è un essere umano”. Imperdonabili, gli scrittori russi non perdonano nulla se stessi e agli altri. Ricoverato dal 1979 in una casa di riposo, gravemente turbato, Salamov vi morì nel 1982.

Sia Solzenicyn che Salamov si rivolgono a Nadezda Mandel’stam, la moglie del poeta Osip Mandel’stam, arrestato e morto, nel 1938, in un campo di concentramento russo. Nadezda Mandel’stam, che diventa il simbolo della resistenza della poesia al morso sovietico, ha scritto il devastante libro di memorie, L’epoca e i lupi, che secondo Iosif Brodskij è la testimonianza letteraria più alta dell’era sovietica, in Italia, ora, dopo le edizioni Mondadori (1971), Serra e Riva (1990) e della Fondazione Liberal (2006), introvabile (perché?). Solzenicyn si rivolge testualmente a Nadezda (citando passi del suo libro), mentre Salamov dedica a Nadezda il racconto Sentenza. “Non era l’indifferenza, ma la rabbia l’ultimo sentimento umano, quello più vicino alle ossa… ero al di fuori della verità, al di fuori della menzogna… Ah, com’è lontano l’amore dall’invidia, dalla paura, dalla rabbia. Com’è poco necessario all’uomo! L’amore viene quando tutti gli altri sentimenti umani sono già tornati. L’amore arriva per ultimo, torna per ultimo, se davvero ritorna”. Se Solzenicyn fa la storia, ha la marcia epica, Salamov raffina la nostra anima, dà un nuovo senso ad essa e ai suoi vizi. Solzenicyn va sulla biga trainata da frotte di sauri; Salamov cavalca il giaguaro.

Dopo l’esilio comminato a Solzenicyn, il 20 febbraio del 1974, su l’Unità, il futuro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, all’epoca “membro della Direzione del PCI e responsabile della Commissione culturale”, cerca di convincere i ‘compagni’ che la punizione è buona e giusta, che in fondo lo scrittore se l’è cercata. “L’altra verità da ristabilire è quella relativa al punto cui era giunto il rapporto tra Solgenitsyn e Io Stato sovietico. Nessuno può negare che lo scrittore (come d’altronde si ammetteva tra le righe degli stessi articoli scritti nei giorni scorsi per esaltarlo) avesse finito per assumere un atteggiamento di «sfida» allo Stato sovietico e alle sue leggi, di totale contrapposizione, anche nella pratica, alle istituzioni, che egli non solo criticava ma si rifiutava ormai di riconoscere in qualsiasi modo. Non c’è dubbio che questo atteggiamento — al di là delle stesse tesi ideologiche e dei già aberranti giudizi politici — di Solgenitsyn, avesse suscitato larghissima riprovazione nell’URSS”. Tendenzialmente, uno scrittore deve sempre avere un “atteggiamento di ‘sfida’” verso l’ordine costituito: ora lo scrittore vive l’esilio dell’indifferenza.

“Ecco come scrivevo. In inverno nella stanza riscaldata, in primavera e in estate sulle impalcature, mentre lavoravamo: nell’intervallo tra due secchi di malta appoggiavo il pezzetto di carta sui mattoni e con un mozzicone di matita (nascondendomi dai vicini) annotavo i righi che mi erano venuti in mente mentre posavo la malta del secchio precedente. Vivevo come in sogno, seduto alla mensa davanti alla sacra sbobba non ne avvertivo il sapore, non udivo quelli che mi stavano intorno, non facevo che andare e venire tra i miei versi, adattandoli come mattoni di un muro… io passavo tutto il mio tempo in una lunga e lontana evasione, ma i guardiani non potevano scoprirla facendo il conto delle teste”. Così Solzenicyn descrive l’ossessione della scrittura, una ossessione che perde e che salva. Raccontando la storia, Solzenicyn vive “come in sogno”. Ogni gesto di scrittura, se grande, accade dal carcere, scavando il tempo dalle pareti, come i carcerati, gratificando le unghie, trovando anfratti nelle gambe delle sedie.

Troppi anni dopo, Solzenicyn, residuo del secolo buio, andato, è una icona buona per le conferenze e i servizi del tiggì: d’altronde, chi ha oggi il coraggio di dire che il Gulag sono stati una azienda sovietica efficiente e che la sopraffazione è un atto virtuoso? Così, leggiamo Arcipelago Gulag come la testimonianza di un tempo che fu. Ma non è oggi il Gulag, in una forma più delicata, deliziosa, sagace, in questo sistema di spazientito servaggio, di frustrazione patente, di frementi ferie?

Si pubblica qui una porzione del discorso che Aleksandr Solzenicyn ha tenuto ad Harvard, l’8 giugno del 1978. Il testo è pubblicato nel volume “Il respiro della coscienza”, edito da Jaca Book; in origine su “Harvard Magazine” (July-August 1978) con il titolo “The Exhausted West”.

La persistente cecità che deriva dalla presunta “superiorità” occidentale, continua a far mantenere la convinzione per cui tutte le vaste regioni del nostro pianeta dovrebbero sviluppare e maturare il livello del sistema occidentale contemporaneo, il meglio in teoria, e il più attraente in pratica; si pensa che tutti gli altri mondi siano temporaneamente impediti (da leader malvagi o da gravi crisi o da barbarie e incomprensioni) a perseguire la democrazia pluralistica occidentale e ad adottare il modo di vita occidentale. I paesi sono così giudicati sul merito del loro progresso in questa direzione. Ma in realtà tale concezione è un frutto della incomprensione occidentale dell’essenza degli altri mondi, ed è il risultato sbagliato del volere misurare tutto con il metro occidentale. L’immagine reale dello sviluppo del nostro pianeta ha poco a che vedere con tutto questo.

Il declino del coraggio. Il declino del coraggio è la caratteristica più sorprendente che un osservatore può oggi riscontrare in Occidente. Il mondo occidentale ha perso il coraggio civile, sia nel suo insieme che separatamente, in ogni paese, in ogni governo, in ogni partito politico e, naturalmente, nell’ambito delle Nazioni Unite. Il declino del coraggio è particolarmente evidente tra le élites intellettuali, generando l’impressione di una perdita di coraggio dell’intera società. Vi sono ancora molte persone coraggiose, ma non hanno alcuna determinante influenza sulla vita pubblica. Funzionari politici e classi intellettuali presentano questa caratteristica, che si concretizza in passività e dubbi nelle loro azioni e nelle loro dichiarazioni, e ancor di più nel loro egoistico considerare razionalmente come realistico, ragionevole, intellettualmente e persino moralmente giustificato il poter basare le politiche dello Stato sulla debolezza e sulla vigliaccheria.

Benessere. Quando si formarono gli Stati occidentali moderni, è stato proclamato come un principio, il fatto che i governi siano destinati al servizio dell’uomo e che l’uomo vive con l’obiettivo di essere libero di perseguire la felicità (si veda, ad esempio, la dichiarazione di indipendenza americana). Finalmente, nel corso dei decenni, il progresso tecnico e sociale ha consentito la realizzazione di tali aspirazioni: lo stato sociale. Ad ogni cittadino è stata concessa la libertà desiderata e i beni materiali, in quantità e qualità tali da garantire in teoria il raggiungimento della felicità, nel senso profondo di questa parola, entrata nella vita durante questi decenni senza perdere significato. Nel processo, tuttavia, un dettaglio psicologico è stato trascurato: il costante desiderio di avere sempre più beni e una vita sempre migliore, il che determina la lotta a questo scopo per molti occidentali, che si scontrano con una condizione di preoccupazione e talvolta di depressione, anche se è consuetudine nascondere accuratamente tali sentimenti. Questa tendenza, molto attiva e forte, genera un dominio sul pensiero umano in generale, e impedisce un aperto e libero sviluppo spirituale… Così, adesso, chi mai rinuncerebbe a tutto questo, e per quali motivi rischiare la propria vita in difesa del bene comune, soprattutto nel caso in cui la sicurezza della nazione debba essere difesa in una terra lontana? La biologia ci insegna che un elevato livello di benessere abituale, non porta vantaggi a un organismo vivente. Oggi il benessere, nella vita della società occidentale, ha cominciato a togliersi la sua pericolosa maschera.

Dopo una sofferenza di decenni di violenze e oppressioni, l’anima umana desidera cose più elevate, più calde e trasparenti, rispetto a quelle offerte dalle abitudini di massa della vita odierna, introdotte da un’invasione rivoltante di pubblicità commerciale, da stupidi spettacoli tivù e da musica intollerabile… Il modo di vita occidentale ha le minori probabilità di diventare un modello leader

Aleksandr Solzenicyn

Vita legalistica. La società occidentale ha scelto per sé la migliore organizzazione possibile per le sue finalità, che io chiamo legalistica. I limiti dei diritti umani sono determinati da un sistema di leggi; tali limiti sono molto ampi. Alcune persone in Occidente hanno acquisito notevole abilità nell’utilizzo, nell’interpretazione e nella manipolazione del diritto. Ogni conflitto è risolto in base alla legge, e questa è considerata la soluzione definitiva… È quasi inconcepibile pensare ad una autodisciplina volontaria: tutti si sforzano di ottenere una sempre più grande estensione dei propri diritti, fino al limite estremo degli elementi giuridici… Ho trascorso tutta la mia vita sotto un regime comunista e vi dirò che una società senza alcun obiettivo o riferimento giuridico, è una terribile realtà. Infatti una società senza elementi giuridici, è indegna umanamente. Ma una società basata alla lettera sulla legge non permette di raggiungere traguardi elevati e non riesce a sfruttare l’intera gamma delle possibilità umane. La legge applicata alla lettera è troppo freddo e formale e non può avere un influsso benefico sulla società. Se il tessuto della vita è un tessuto di relazioni legalistiche, si crea un’atmosfera di mediocrità spirituale che paralizza gli impulsi più nobili dell’uomo.

La tendenza della stampa. Poiché sono sempre necessarie informazioni immediate e credibili, diventa necessario per un giornalista attingere a supposizioni, a incognite, a chiacchiere, per riempire lo spazio, e non potrà mai essere confutato, dopo essere entrato nella memoria dei lettori. Quante notizie affrettate, immature, superficiali e fuorvianti sono espresse ogni giorno, confondendo i lettori, senza che siano confutate? La stampa può avere il ruolo di educazione o diseducazione dell’opinione pubblica. Così è possibile sostenere i terroristi rendendoli eroi, pubblicamente rivelare segreti di stato, realizzare spudorate intrusioni nella privacy delle persone note, secondo lo slogan ‘tutti hanno il diritto di sapere tutto’. Ma questo è un falso. È infatti maggiore il valore che deriva dal diritto di un popolo di non sapere, e di non riempire le loro anime di pettegolezzi, sciocchezze, discorsi vani. Una persona che lavora e conduce una vita significativa non ha bisogno di questo flusso di informazioni eccessive e menzognere. La superficialità è una malattia del XX secolo, e più che altrove si è manifestata nel giornalismo. Un’analisi approfondita di un problema è anatema per la stampa; è contrario alla sua natura. La stampa adotta solo formule sensazionali.

La moda nel pensiero. Senza alcuna censura, in Occidente le tendenze e i pensieri di moda sono scrupolosamente separate da quelle che non sono di moda e questi, pur senza essere vietati, hanno scarse possibilità di trovare vita nella stampa, nei libri, o anche di essere in generale considerate. In Occidente gli studiosi sono liberi in senso giuridico, ma sono accerchiati e condizionati da idoli, prevalentemente dettati dalla moda… Nel mondo contemporaneo, a ben guardare, c’è come un’armatura pietrificata intorno alla mente delle persone, che spesso impedisce lo sviluppo di nuove idee. Essa può essere rotta soltanto dal rompighiaccio inesorabile generato dagli eventi.

L’Occidente non è un modello. Ma se mi chiedono se propongo l’Occidente, come è oggi, come modello per il mio paese, francamente rispondo negativamente. No, io non posso raccomandare questa società come ideale per la trasformazione della nostra. Attraverso una profonda sofferenza, le persone nel nostro paese hanno raggiunto uno sviluppo spirituale di una tale intensità, per la quale il sistema occidentale nel suo attuale stato di esaurimento spirituale non è attraente. Alcune caratteristiche della vita occidentale che ho considerato, sono estremamente tristi. Un fatto che non può essere contestato è l’indebolimento della personalità umana in Occidente, mentre in Oriente è diventata più ferma e più forte. In molti decenni siamo passati attraverso la formazione spirituale, molto in anticipo rispetto all’esperienza occidentale. Contrasti e conflitti spesso mortali, hanno prodotto personalità più forti, più profonde e più interessanti di quelle generate dagli standard del benessere occidentale. Pertanto, se la nostra società potesse trasformarsi nella vostra, questo significherebbe un miglioramento di certi aspetti, ma anche un cambiamento in peggio di alcuni punti particolarmente significativi. Naturalmente, una società non può rimanere chiusa in un abisso di illegalità, come avviene nel nostro paese. Ma è anche degradante restare su di un piano sociale senza anima e preda del legalismo, come avviene nel vostro. Dopo una sofferenza di decenni di violenze e oppressioni, l’anima umana desidera cose più elevate, più calde e trasparenti, rispetto a quelle offerte dalle abitudini di massa della vita odierna, introdotte da un’invasione rivoltante di pubblicità commerciale, da stupidi spettacoli tivù e da musica intollerabile. Tutto ciò è visibile per i numerosi osservatori provenienti da tutte le nazioni del nostro pianeta. Il modo di vita occidentale ha le minori probabilità di diventare un modello leader. Vi sono sintomi da cui si può vedere come una società sia in decadimento, quali ad esempio, il declino delle arti o la mancanza di grandi statisti. A volte i segnali sono molto espliciti e concreti. Ad esempio, se un paese resta senza energia elettrica per poche ore, e all’improvviso una folla di cittadini americani produce saccheggi e devastazioni, la superficie sociale appare molto debole, e il sistema sociale instabile e malsano. Ma il conflitto materiale e spirituale, nel nostro pianeta, è un conflitto di proporzioni cosmiche, e non una vaga questione nel futuro; esso è già iniziato. Le forze del male hanno iniziato la loro offensiva decisiva. Si può sentire la loro pressione, eppure gli spettacoli sugli schermi e le pubblicazioni sono piene di sorrisi costruiti e la gente si è tolta gli occhiali.  Dov’è la felicità?

Aleksandr Solzenicyn