L’occhio di Sabine

fotografia
Alla Casa dei Tre Oci di Venezia gli scatti di Weiss, maestra dell’immagine scomparsa a dicembre all’età di 97 anni
di Michele Smargiassi
Bisognerebbe creare per Sabine Weiss una definizione che manca: l’equivalente di “fotografia umanista”, ma sull’altra metà della lente. Ma quale? Femminile no, sa troppo di rotocalco di moda (ma Sabine ha fatto anche fotografie di moda), femminista neanche, Sabine non si è mai dichiarata tale (ma in qualche modo lo è stata). Forse questa lacuna lessicale ha finito per oscurare l’unicità dell’unica donna di quella generazione francese di fotografi di buona volontà venata di malinconia, che nel dopoguerra riscattarono con l’ottimismo del cuore il pessimismo della grande sconfitta: Boubat, Doisneau, Izis, Ronis… Lei li conobbe tutti, li frequentò, ma adesso che finalmente possiamo distinguerla da quella compagnia, ritagliarla da quello sfondo, grazie a una splendida retrospettiva dedicata ai quasi novant’anni della sua vita con fotografia, ai Tre Oci di Venezia, La poesia dell’istante (fino al 23 ottobre, mostra che Sabine non è riuscita a inaugurare, essendo mancata lo scorso dicembre, a 97 anni), bene, ci accorgiamo che dopo tutto la sua lingua aveva accenti un po’ diversi. Forse anche perché Sabine non era francese, ma svizzera. «Non aveva vissuto la guerra», spiega la curatrice Virginie Chardin davanti a quelle immagini di bambini che traspirano solo voglia di pace. « Non aveva subìto l’umiliazione dell’occupazione. Il suo poteva essere uno sguardo interamente rivolto al futuro». Era avida di futuro.

Sognava Parigi fin da quando, undicenne, nella minuscola Saint-Gingolph, canton Vallese, la piccola Sabine Weber già fotografava e componeva album, con la sicurezza di una vocazione che il padre, chimico, incoraggiò, mandandola a bottega in un famoso studio di Ginevra. Il suo primo lavoro pubblicato: sui soldati americani in licenza in Svizzera. Ma la capitale della fotografia era Parigi, e Sabine tanto fece che ci andò, poco più che ventenne, portando con sé solo una camicia da notte e una Rollei. Si fece prendere come assistente da un eccellente professionista, Willy Maywald, ed ecco, nacque unagrande fotografa, e lo fu fino all’ultimo. A Venezia però il suo è un ritorno, perché fu qui che conobbe su marito, Hugh Weiss, pittore americano, un amore lunghissimo e fedele, romantico e bohèmien: se ne andarono in autostop nel paese natale di lei; poi, nel sottoscala di boulevard Murat che abitarono a Parigi, dove lei sciacquava le foto alla fontana nel cortile, perché non c’era acqua corrente in casa. Era brava. Veniva pubblicata. Solo una cosa non diceva di sé: artista. «Gli artisti creano qualcosa di nuovo, io sono una testimone». Quando ebbero una bella casa, un pannello bianco a scorrimento separava il suo laboratorio fotografico dallo studio di pittore del marito: «La fotografia e la pittura non sono così lontane», la vediamo scherzare in un vecchio filmato, «ma in mezzo c’è una porta». A un’idea della fotografia come racconto del reale non abdicò mai. Fossero scene di strada, ritratti di personalità, ricchi e clochard, anziani e bambini, cani e gattini, era un mondo visto e non immaginato, e lei era «una di quelle personeche sanno vedere solo ciò che le commuove », ha scritto Christian Caujolle. Pubblicò di tutto per tutti,Life, Vogue, Time, Paris Match. Le piacquero le scene notturne, le più metafisiche del suo lavoro, ma anche gli aneddoti della quotidianità, l’esotico; seppe adeguare lo stile al contesto, le sue fotografie americane sono sorprendentemente simili all’estetica dell’instabilità di Klein, o di Frank. Pensava che il mondo è uno solo, e la dolcezza si mescola con l’amaro. Le donne, soprattutto, vivono su quel confine. Prima di iniziare a lavorare per Rapho (storica agenzia francese), Sabine fu contattata da Magnum: per il reportage di candidatura, la mandarono a Dun-sur-Auron, in una comunità per malate mentali: guardare quei ritratti oggi comunica un sentimento di empatia infinita. Un suo libro, non per niente, volle intitolarlo Emotions: e «non erano», conferma Chardin, «solo emozioni felici». Era, quella che lei ci ha tramandato, un’Europa con le cicatrici. Piena di ragazzini della “generazione X”, nati fra le bombe. «Quando fotografava i bambini, era lei stessa bambina», ricorda la figlia, Marion. La stessa cosa diceva il marito Hugh. Ma a vederla nelle foto che fecero a lei, questa sorridente donna con la frangetta bionda, solida, mitteleuropea, si capisce quanto carattere adulto le sia servito per conquistarsi un posto in un mondo maschile, dove, quando la vedevano con la sua Leica, c’era sempre qualcuno che le diceva: «fatti in là ragazzina, lascia lavorare i fotografi».

Femminista, forse no. Ma c’è una fotografia, una che lei non voleva neppure esporre a Venezia, perché la considerava sbagliata tecnicamente, «la gamba è mossa», ma quel movimento è sublime: è una ragazza che entra correndo da sinistra in una piazza della Grecia dove quattro uomini vendono pane, immobili come statue, guardando spaesati fuori dalla cornice: bene, è la leggerezza e la vitalità dirompente del femminile che irrompe nel maschile, è la Ninfa che Aby Warburg scoprì nei dipinti rinascimentali, è la leggiadria un po’ folle che sconvolge la freddezza del patriarcato. È il sorriso di una donna in un mondo che gli uomini avevano tentato di distruggere.
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