Lo spazio per pensare il nuovo presente

La crisi della moderna forma Stato a fronte dei processi globali contemporanei, le tensioni a cui vengono sottoposti concetti politici fondamentali (come ad esempio quello di cittadinanza), il rilievo costitutivo dei movimenti migratori e più in generale delle pratiche di mobilità per il mondo in cui viviamo, l’esigenza di ripensare la categoria marxiana di forza lavoro (e il problema della sua produzione), lo spiazzamento dello sguardo rispetto alla centralità indiscussa dell’Europa e dell’Occidente, alimentato dal confronto con la critica postcoloniale.

QUESTI E ALTRI TEMI vanno indagati con un metodo che punta a far emergere le formidabili tensioni che segnano l’attuale congiuntura a livello mondiale, la violenza che ne deriva e al tempo stesso l’insieme delle pratiche e delle lotte con cui i soggetti dominati e sfruttati si contrappongono a quella violenza, indicando – in modo del tutto concreto – la possibilità di un suo superamento. Il mondo viene così pensato al tempo stesso dal punto di vista dei processi materiali che ne intessono la trama e da quello della sua possibile trasformazione. Un mondo da guadagnare, per riprendere una suggestione classica.
Il riferimento al mondo non è per me metaforico. Consapevole della difficoltà del compito, cerco piuttosto di assumere la dimensione mondiale come sfondo della mia riflessione su ciascuno dei temi affrontati – dal ripensamento critico del federalismo alle migrazioni, dal dialogo a distanza tra Marx e Foucault a quello tra Du Bois e Fanon, per limitarsi a qualche esempio. La questione dello spazio, e dunque delle coordinate spaziali degli stessi concetti con cui si tenta di pensare il presente, ha acquisito per me un rilievo fondamentale nel corso del tempo, in particolare sulla base del lavoro sui confini e sui processi globali sviluppato con Brett Neilson.

La «globalizzazione» non è, secondo la nostra prospettiva, un processo di livellamento delle differenze e di progressiva costituzione di uno spazio planetario «liscio»: al contrario (e per questa ragione occorre guardare con cautela a ogni frettolosa dichiarazione della sua crisi o della sua fine), è un insieme di processi complessi e contraddittori, in cui la riorganizzazione del mercato mondiale come ambito di riferimento delle operazioni fondamentali del capitale (caratterizzate da una specifica omogeneità) è costretta a misurarsi con molteplici resistenze e attriti, che danno luogo a una profonda eterogeneità di formazioni spaziali, economiche, politiche, sociali e culturali. È una situazione studiata sia dal punto di vista delle migrazioni sia dal punto di vista di un’analisi critica del capitalismo contemporaneo e delle sue implicazioni politiche.

IN QUESTE CONDIZIONI, assumere il mondo come scala geografica fondamentale di ogni riflessione sul presente non ha nulla di astratto: fa piuttosto riferimento alla necessità di incorporare all’interno degli stessi concetti che utilizziamo l’insieme delle rotture geografiche e della turbolenza geopolitica determinate dai processi globali contemporanei.
Sullo sfondo di questi processi, lo stesso senso del luogo si modifica profondamente – e ad esempio l’Europa assume una posizione ben diversa da quella (egemonica) che per secoli si è costruita entro una storia di espansione, dominazione e conquista. La decolonizzazione si carica in questo quadro di nuovi significati e guadagna una nuova rilevanza, mentre la condizione postcoloniale rende possibile far risuonare contesti come quelli latinoamericani o asiatici nell’analisi degli sviluppi e dei conflitti europei contemporanei.

Così inteso, il mondo diviene un criterio di metodo, determina un insieme di dislocazioni che investono lo stesso piano della riflessione teorica e apre quest’ultima alla ricerca di concetti che siano in grado di cogliere le dimensioni comuni di un’esperienza che assume tratti planetari e al tempo stesso di articolare la profonda variabilità di quella esperienza in diversi contesti materiali.

SOTTO IL PROFILO POLITICO, il compito che ne deriva è in primo luogo la reinvenzione dell’internazionalismo – o l’invenzione di un nuovo linguaggio in grado di affrontare il problema che storicamente l’internazionalismo aveva affrontato: quello di dare espressione a una comune realtà di oppressione e a un comune desiderio di liberazione.
Se le coordinate spaziali delle ricerche che si presentano nei capitoli di questo libro sono mondiali, resta da dire qualcosa sulle coordinate temporali, contraddistinte dal tentativo di pensare criticamente il presente come un problema. È noto: unica dimensione temporale assolutamente reale, il presente è anche sempre in dissolvenza, «mentre esso viene mostrato», per citare la Fenomenologia dello spirito di Hegel, «esso ha già cessato di essere». «A un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo e immobile il materialista storico non può rinunciare», scrive tuttavia Walter Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia.

È IN GENERALE questo essere «in bilico nel tempo» a definire il presente. Bisogna assumerlo sia come oggetto di critica sia come punto di vista: nella dissolvenza del presente occorre afferrare le tendenze che anticipano il futuro e intravedere il balenare di un lungo periodo che ci conduce verso il passato. Su queste dimensioni della temporalità i capitoli che seguono si sporgono a più riprese, tentando di formulare non tanto delle prognosi quanto più modestamente delle ipotesi sugli sviluppi futuri e ripercorrendo a ritroso (con piglio genealogico) alcune tracce proposte dai problemi di volta in volta studiati.

Baricentrato sul presente, il discorso è tutt’altro che estraneo alla storia, per quanto – riprendendo ancora Benjamin – tenti di tenersi a distanza dal «bordello dello storicismo» (una questione analizzata, sulla base del confronto con Dipesh Chakrabarty). L’analisi delle migrazioni contemporanee attraverso il Mediterraneo porta così, ad esempio, a riscoprire la storia della lotta contro la schiavitù negli Stati Uniti del XIX secolo, lo studio dei profili del federalismo riconduce alle origini della moderna forma Stato, mentre il confronto con il rilievo attuale della tematica dell’estrattivismo si accompagna da riferimenti alle origini della colonizzazione spagnola in America Latina e alla storia delle lotte che hanno scandito l’estrazione e la lavorazione della gomma.

Definita da coordinate spaziali mondiali e da una focalizzazione sul presente, la teoria politica è per me essenzialmente teoria critica. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le «critiche della critica», in particolare sulla base del fatto che la critica tenderebbe a occupare una posizione esterna rispetto al suo oggetto e a svolgersi secondo modalità essenzialmente «negative»: la critica assumerebbe di conseguenza toni in ultima istanza malinconici – alimentando quella «malinconia di sinistra» che costituirebbe una specifica patologia del nostro tempo. Discutere a fondo queste posizioni richiederebbe una ricostruzione delle diverse tradizioni e dei diversi significati della «teoria critica» – troppo spesso schiacciati nel dibattito sul mainstream della scuola di Francoforte.

«NOI NON ANTICIPIAMO dogmaticamente il mondo, ma dalla critica del vecchio mondo vogliamo evincere il mondo nuovo»: da queste celebri parole di Marx, tratte da una lettera ad Arnold Ruge del settembre del 1843, si può certo derivare un’immagine della critica del tutto refrattaria a ogni tonalità malinconica. «La filosofia si è mondanizzata», proseguiva Marx, »e la prova più evidente è che la coscienza filosofica è coinvolta non solo esteriormente, bensì pure interiormente, nel tormento della lotta»: presentata come compito essenziale del presente, la critica si installa qui all’interno dei conflitti che lo innervano e lo costituiscono, e assume il presente al tempo stesso come suo punto di vista e come suo oggetto eminente – «la critica radicale di tutto l’esistente». È certo soltanto uno schema generale, che deve essere articolato, variato, innovato profondamente sulla base delle acquisizioni storiche e politiche accumulate nel tempo che ci separa da Marx. Questo schema continua a essere una buona esemplificazione del senso in cui definisco critica la teoria politica che tento di praticare.

 

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