Molti dei saggi del libro Una città per tutti. Diritti, spazi, cittadinanza (a cura di Alessandra Criconia, Donzelli, pp. 202, euro 28) prendono come punto di riferimento il pensiero di Henri Lefebvre: per affermarne l’attualità o anche per prenderne le distanze.
Condivise da quasi tutti gli autori sono le idee di «capitale spaziale» e di «spazio sociale»; la città dovrebbe essere un rizoma di contatti ed esperienze di relazione, mentre invece il suo spazio viene sempre più sfruttato direttamente per la produzione di plusvalore: «Il suolo, il sottosuolo, l’aria, addirittura la luce diventano forze produttive» (Ilardi).
LO SPAZIO URBANO è sociale perché è o dovrebbe essere fonte di interazioni umane, ma è tale anche in senso negativo e deformato. Diventa allora l’espressione dei rapporti e delle gerarchie di potere del capitale, che si estroflettono nella disposizione delle strade, nelle divisioni tra centro e periferia, nel sorgere di muri virtuali e materiali. L’ultima parte del libro si occupa soprattutto di Roma, ma penso anche alla separazione che a Napoli scinde il centro borghese della città dai sobborghi «plebei» e che si esteriorizza nella linea divisoria della tangenziale, un canale di comunicazione che si trasforma allo stesso tempo in demarcazione.
COSÌ L’INCONSCIO SOCIALE si materializza nel tessuto della città, in «trasformazioni transitorie che spesso creano vuoti urbani che sono al contempo vuoti di cittadinanza e di cancellazione dello spazio pubblico» (Villani).
Sono fenomeni psichici e materiali insieme, una simultaneità studiata da Benjamin per i passages di Parigi. Per capire di che si tratta leggete per esempio il saggio, o forse meglio dire il racconto, di Massimo Canevacci: dove il quartiere di Pigneto, nella sua umanità miracolosamente sopravvissuta, è contrapposto al risentimento e alla paura che si provano attraversando Roma sulla linea di tram n. 5, dopo che sia venuta la sera.
L’ARTICOLAZIONE dello spazio è un’espressione materiale e linguistica dell’inconscio sociale, che ancor prima di enunciarsi in teorie sociologiche e urbanistiche influenza il modo di intendere la strada (Criconia) come luogo di separazione o di comunicazione, il centro come ambiente di intesa o piuttosto – come oggi sta diventando – area speculativa, gentrificata e separata dalle periferie. Che lo spazio sia messo in quanto tale a valore è una delle indicazioni più importanti di Lefebvre, che oggi conosce una dilatata dismisura col proliferare dei turismi B&B.
Conosceva, diciamo: perché chi può dire se la situazione di emergenza che stiamo vivendo non cambierà anche la concezione della città e non muterà radicalmente ciò che sembrava inarrestabile e scontato? O saremo capaci di immaginare una nuova forma sociale dello spazio o cadremo in una protratta decadenza di quella attuale, con tutti i rischi di accentramenti autoritari e di scissione tra gli individui. Si interromperebbe così quel processo di ibridazione culturale, su cui attira l’attenzione Rino Genovese, che vede la metropoli come luogo in cui si intrecciano tempi e culture diverse, in forma conflittuale, ma anche capaci di intrecciarsi in evoluzioni inedite, innovare le differenze a confronto, creare un nesso tra l’arcaico e il moderno.
Il libro presenta visioni distinte sul tema della trasformazione del centro in spazio di consumo. Per Agostino Petrillo prevale l’aspetto negativo di questo processo, per cui il centro diventa un luogo «di tempo vuoto e inoperoso»; Massimo Ilardi legge nell’espansione del consumo una contraddizione sotterranea tra i desideri suscitati dalla fantasmagoria delle merci e l’impossibilità di soddisfarli: in tal senso essi tenderebbero ad eccedere dall’interno il modo di produzione del capitale e il suo imperativo luttuoso. Scrivendo queste righe , torna in mente la situazione presente: quali consumi, quali merci, quali desideri avremo dopo, avranno ancora le forme di cui qui stiamo parlando? In questo momento il centro è vuoto di merci, di consumi e di desideri. Ed anche di persone fisiche. E tutto ciò suscita una crisi della presenza (De Martino) e cioè uno spaesamento radicale.
RIUSCIREMO ANCORA a vedere il Pigneto, come lo descrive Canevacci (e la sua sopravvivenza già appariva un miracolo, prima che arrivassero anche lì le «ristrutturazioni»?
La lettura di questo libro ci fa ripercorrere la storia di una devastazione ambientale e psichica, che ha condotto alla attuale spettralità; gli autori, quando lo scrivevano, certo non potevano prevedere le condizioni estreme in cui il processo di capitalizzazione dello spazio avrebbe costretto la terra, tuttavia il processo di crescente astrazione, di diffusa impersonalità, l’urbano ridotto a una segnaletica amorfa, già anticipano e descrivono tratti della situazione presente.
Come scrive ancora Genovese la megalopoli prodotta dal capitale è «una forma informe» segnata dalla dismisura. Che ora ci impone di scegliere fra una socialità insorgente o la barbarie.