«Lo sai, io sono matto»

Senese, fantino, cuore e coraggioDiceva: «Lo sapete, sono matto…»

Il soprannome ai tempi della Tartuca, le sei vittorie. La città è rimasta senza respiro

 

SIENA «Lo sai, io sono matto» gli piaceva rispondere. Era così che si definiva: un matto nel senso buono. Scanzonato, ironico. Uno che accetta le sfide, che usa poco la diplomazia, scherza con tutti, il luccichio fisso in quegli occhi scuri, il sorriso sornione che lascia intendere più di quel che dice, lo sguardo che ti arriva addosso di lato.

Andrea Mari era tutto questo. Era un grande professionista, un protagonista del Palio ma era, soprattutto, un ragazzo di Siena; nato nel 1977 a Rosia, un borgo a pochi chilometri, ma cresciuto in città dove andava a scuola, giocava a calcio, imparava a conoscere il Palio come fanno tutti i senesi fin da bambini. L’amore per i cavalli e l’esempio di Trecciolino — che aveva riaperto la strada ai fantini «locali», dopo anni d’egemonia sarda — lo hanno portato a farne un mestiere, scelta difficile per un senese che sa bene, meglio di tutti, cosa significa galoppare sul tufo vestendo un giubbetto di seta che pesa quanto i sogni, le speranze, l’adrenalina e la tensione di un popolo intero.

L’esordio di Andrea Mari arriva a 23 anni nella Tartuca che è anche la Contrada della sua famiglia; ed è qui, come accade a ogni fantino, che prende il nome di battaglia che da quel momento in poi si porterà dietro in Piazza del Campo. Per Andrea Mari il soprannome «Brio» era perfetto. Lo ricorda oggi, con grande dolore, Roberto Barzanti che della Tartuca, in quel momento era il Priore: «Fui io a suggerirgli di scegliere il nomignolo Brio, preferendolo tra le ipotesi che erano in ballo. Mi pare di rivederlo con quello sguardo vispo di ragazzino; aveva una furente passione che lo eccitava e gli dava uno stile estroso e spavaldo. Se n’è andato un protagonista indimenticabile, la sua traiettoria è stata crudelmente troppo breve». In quel soprannome spagnoleggiante e festoso c’era tutta l’indole di Mari: da vero «signore del brio», nelle cinque Contrade in cui ha vinto il Palio ha instaurato legami veri, di autentico affetto, di accesa passione. A volte di fratellanza.

Dopo i primi anni di gavetta — in cui Siena sembra ancora matrigna — il 2006 segna la sua svolta; il 2 luglio vince nella Pantera un Palio che passa alla storia, combattuto fino all’ultimo metro e conquistato dopo aver rincorso per tre giri l’avversaria. Quel metro che c’è, a Siena, tra la gloria e la disperazione Mari lo conquista da «matto», infilando l’ultima curva del Casato a un centimetro dallo steccato. Una traiettoria impensabile che da lì in poi diventa sua, lo contraddistingue; la determinazione, l’audacia e forse un po’ quella follia a cui spesso si richiama lo fanno passare dove gli altri non passano. Negli anni è cresciuto, Brio; non è più il ragazzino guascone, è diventato un professionista lucido, coraggioso, caparbio. La luce nei suoi occhi è sempre più accesa. Nel 2009, in una carriera corsa quasi al buio, regala alla Civetta la vittoria dopo 30 anni di attesa; nel 2011 replica nella Giraffa, nel 2014 vince ancora nella Civetta, nel 2015 nella Torre grazie a traiettorie ancora una volta perfette. L’ultima vittoria di Brio era stata nel luglio 2018 nel Drago, una cavalcata solitaria su Rocco Nice, partito primo e sempre avanti, senza mollare un centimetro.

Sei vittorie in 32 Palii e anche tante sconfitte; corse sciupate, bruciate, errori, alcune macchie indelebili. Perché Mari era uomo da montagne russe e, anche per questo, talvolta divisivo. Ma era uno che aveva già lasciato la sua impronta nella storia del Palio contemporaneo e nel cuore della città. Che ieri pomeriggio è rimasta attonita e incredula, senza respiro, quando la notizia ha iniziato a diffondersi. «Un ragazzo forte, caparbio e dall’animo gentile che Siena porterà sempre nel cuore» ha detto il sindaco Luigi De Mossi, annullando le corse di addestramento in programma oggi. Centinaia i ricordi, le foto, i pensieri postati sui social. Tutta Siena si stringe alla famiglia e alla moglie di Andrea Mari. E stavolta non è solo metafora.

 

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