La sua immagine è rimasta legata nel tempo a quella di Giorgio, il ragazzo timido catturato nell’amore (forse) impossibile per Micol (Dominque Sanda), figlia di una famiglia dell’alta borghesia di Ferrara. Belli, eleganti con la loro giovinezza che come nelle partite a tennis in cui si sfidano prova a fronteggiare la mancanza di futuro nell’Italia fascista delle leggi razziali contro gli ebrei come loro, della guerra, delle deportazioni, della morte.
Eppure il personaggio interpretato in Il giardino dei Finzi Contini (1970), il film di Vittorio De Si premio che vinse l’Oscar per il miglior film internazionale – Giorgio Bassani, autore del romanzo a cui si ispirava, ne prese però le distanze – non è il solo passaggio in una carriera che sperimenta più direzioni, e nella quale si ritrova molto cinema italiano degli anni settanta, d’autore e di genere al di fuori di ogni classificazione.
SENZA dimenticare il teatro dove tutto per Lino Capolicchio era cominciato mentre viveva ancora Torino con gli spettacoli insieme a Massimo Scaglione. E la televisione già negli anni Sessanta, quando appare sul piccolo schermo in Il conte di Montecristo (1966) tra i primi «sceneggiati» popolari di successo della Rai – la regia era di Edmo Fenoglio. L’insegnamento al Centro Sperimentale – fra i suoi allievi ci sono stati Sabrina Ferilli e Francesca Neri – il doppiaggio, la regia a teatro e al cinema – l’esordio con Pugili (1995) a cui segue Il diario di Matilde Manzoni (2002).
Lino Capolicchio, che è morto la sera del 3 maggio a Roma era nato a Merano il 21 agosto del 1943, cresciuto a Torino era approdato nella capitale per frequentare l’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. È giovanissimo quando Strehler lo chiama al Piccolo Teatro di Milano per le Baruffe goldoniane, e lo vorrà ancora in Il gioco dei potenti (1965). Con Zeffirelli arriva sul set di La bisbetica domata (1967) ma il primo ruolo da protagonista è in Escalation di Roberto Faenza. Capolicchio incarna il volto della giovinezza, seducente, amato, corteggiato, ribelle. Ambiguo come il ragazzo di Metti una sera a cena di Patroni Griffi (1969), irriverente come l’auto che viaggia in Tunisia con la coppia di americani – Il giovane sfacciato di Dino Risi (1969).
LAVORA con Lizzani, De Santis, Brunello Rondi, Del Monte, i Taviani, e che gli incontri, gli attraversamenti sono un segno della sua persona – come quell’aria sempre da ragazzo – lo dice bene il libro che Capolicchio ha scritto: D’amore non si muore (edizione Bianco e Nero – Csc); un memoir tra le cui pagine vi sono gli artisti coi quali ha lavorato ma anche il racconto di chi ha conosciuto o le occasioni mancate. Ritratti nelle emozioni, momenti colti oltre la superficie. Fellini ad esempio con la «delusione» di avere sfiorato il Satyricon: «…Mi disse subito che mi stimava e mi apprezzava moltissimo come attore ma avevo un difetto, ero già piuttosto famoso. Le testuali parole di Fellini furono: ’sono in lotta con il produttore Alberto Grimaldi. Lui predilige due attori già famosi, io li preferisco sconosciuti. Dunque se vince la linea del produttore il ruolo sarà tuo, se invece a vincere è la mia linea tu, non reciterai nel film».
Nel 1976 Capolicchio incontra Pupi Avati, ha perduto la possibilità di girare Profondo rosso – grandissimo rimpianto – a causa di un incidente, e il regista bolognese gli propone il noir-horror padano La casa dalle finestre che ridono. È l’inizio di una lunga collaborazione che li fa ritrovare in Jazz Band (1978), Cinema!!! (1979), Ultimo minuto (1987), Le strelle nel fosso (1978), Noi tre (1984), Ultimo minuto ( 1987) fino al recente Il signor Diavolo (2019). «La vita è stata una bellissima avventura», diceva di sé Capolicchio. Possiamo credergli.