PER VERIFICARE questa interpretazione i ricercatori, che fanno parte della rete del «Cantiere delle Idee», hanno composto il puzzle che gli intervistati hanno espresso sul lavoro, i partiti, il funzionamento dello stato, il potere della finanza e delle imprese. Sullo sfondo di un paese risentito, socialmente ripiegato su se stesso, si staglia la crisi della sinistra politica – come fa notare Loris Caruso nella presentazione – che non riesce più né a interpretare né a dialogare con una realtà sociale frammentaria. Realtà ambivalente nella supposta disaffezione alla politica dei partiti, perché capace allo stesso tempo di mettere in campo una vasta e diffusa rete di associazioni, gruppi di autorganizzazione che fanno fronte, in funzione di supplenza o per contrastare le istituzioni pubbliche nella governance liberista della società, agli effetti disastrosi della progressiva cancellazione dei servizi sociali e della conseguente finanziarizzazione dei diritti (sociali) di cittadinanza.
L’ipotesi di base da verificare – la proletarizzazione del voto verso i partiti di destra, populisti – non è confermata dai partecipanti alla ricerca. Trump non ha vinto perché la classe operaia ha voltato le spalle ai democratici; la Brexit non è ha conquistato la maggioranza nel referendum perché il Regno Unito working class ha preferito i confini nazionali ai tecnocrati di Bruxelles; il movimento Cinque Stelle e la Lega non hanno conquistato il cuore dei produttori padani o dei lavoratori dipendenti. Quel che ha davvero pesato è l’assenza dei partiti di sinistra e riformisti nella formazione dell’opinione pubblica e nella costruzione di un’egemonia culturale rispetto all’ideologia dell’individuo proprietario. E in politica i vuoti non sono ammessi, perché subito occupati da «imprenditori politici» del risentimento, del razzismo e di una visione liberista delle relazioni sociali. E fattore rilevante è un lento e costante ritirarsi dal voto di ampi settori della popolazione. Questo non significa, scrivono i ricercatori, che la politica sparisca dalle periferie. Variegata e diffusa è la presenza di associazioni, collettivi che organizzano la partecipazione di uomini e donna alla vita politica. In altri tempi si sarebbe detto che la sinistra sociale è più vitale e presente di quella politica. Una piccola verità, ma che non spiega certo le piccole e grandi apocalissi culturali e sociali di questi anni.
LE RAGIONI del «vento populista» – un’espressione non amata e quasi sempre maneggiata criticamente dai ricercatori che firmano i testi di questo libro – sono semmai più articolate di quelle che semplificazioni giornalistiche presentano ogni giorno per spiegare i consensi di Marine Le Pen, Matteo Salvini, Donald Trump e di tanti altri esponenti politici conservatori o «populisti».
EMERGE un’interpretazione della ricerca che mette a fuoco polarità e diseguaglianze sociali – e di classe – che sono riassunte dalla «narrazione dei tempi presenti» con le dicotomie tra centro e periferia, tra alto e basso, tra élite e popolo. Così la politica non è respinta – molti degli intervistati chiedono politica, partecipazione -, ma ostilità è manifestata verso i politici, ritenuti marionette o servi: politici, che in nome di risibili privilegi fanno il gioco e difendono gli interessi dei «potenti». Allo stesso modo non vengono respinte neppure le forme tradizionali di difesa dei lavoratori; ma non si risparmiano critiche verso chi ha accompagnato la destrutturazione delle tutele e dei diritti del lavoro che hanno nella precarietà il proprio stigma ferale.
Un libro dunque importante, perché fa i conti e prova a demolire luoghi comuni che hanno costruito il consenso elettorale alle formazioni populiste e conservatrici. Problematica tuttavia è la scelta di alcune categorie propedeutiche alla definizione delle coordinate sociali e di classe presenti in Italia alle quali ricondurre la crescita elettorale della destra «sociale» e la crisi della sinistra.
IN PRIMO LUOGO il concetto di popolo, che è qui respinto per la sua valenza organicistica. Non è certo la lingua a definire un popolo e neppure una religione o il colore della pelle. L’Italia, al pari di altri paesi capitalistici – ma non solo -, è un paese ormai multietnico dove il pluralismo religioso è elemento acquisito. Nelle risposte emerge anche una percezione e una visione che non manifesta pregiudizi e ostilità verso i migranti. Emerge però un sentimento diffuso di paura, incertezza e precarietà che gli apprendisti stregoni della xenofobia e del populismo utilizzano per indicare un nemico degli stili e del tenore di vita messo a dura prova dall’ordine economico e politico egemone.
IL POPOLO è quindi un’invenzione teorica e politica. Lo è stata in passato durante la formazione degli Stati-nazione, lo è ogni volta che il concetto di nazione viene presentato come orizzonte di una politica, poco importa se di destra o di sinistra, di difesa di una formazione sociale variamente mitizzata da proteggere da quel processo che frettolosamente viene chiamato globalizzazione.
Timide sono però le prese di distanza da chi evoca lo spettro del popolo e della nazione come trincee dal potere performativo del capitalismo globale. Si preferisce una posizione collaterale, moderatamente distante da quello che viene chiamato «populismo di sinistra». Poi, con una mossa bizzarra, i ricercatori fanno propria una categoria altrettanto fragile e foriera di equivoci, quella di «classi popolari».
Il popolo è sì diviso in classi, ma diventa poco chiaro cosa siano le classi popolari. Viene evocata la categoria gramsciana di subalterni, usata dalla filosofa di origine bengalese Gayatri Spivak per indicare i meccanismi di autonomia e sopratutto di dipendenza dal potere costituito da parte appunto dei subalterni. Tanto in Gramsci che nella Spivak, i subalterni sono così evocati per indicare il potere dell’ideologia dominante, ma l’uso del termine non ha mai valore euristico nel definire un gruppo sociale. Semmai indica un nodo politico: come sviluppare soggettività politica in un contesto dove stringenti e cogenti sono le relazioni di dipendenza all’interno dei rapporti sociali.
LO STESSO SI PUÒ DIRE di «classi popolari», espressione molto in auge nella cultura politica presente nel Partito comunista degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento – e in buona parte anche del sindacato dei tempi passati – per indicare figure sociali e produttive eterogenee ma comunque da inscrivere in una accorta e duttile politica delle alleanze. Evocare e richiudere la composizione sociale delle classi in quella eterogeneità della categoria delle classi popolari significa pregiudicare molto la messa in campo di processi di soggettivazione politica adeguata ai tempi. Non è infatti un caso che il tema della crisi della democrazia rappresentativa venga spinto ai margini, fino a scomparire dalla ricerca.
La crisi della democrazia non nasce solo da una assenza della sinistra, ma dal terremoto ancora in atto nella produzione della ricchezza, dalla crisi del neoliberismo e, piaccia o no, della modernità. La precarietà, la deflagrazione del nesso lavoro-diritti di cittadinanza, l’afasia della cultura politica del movimento operaio nell’interpretare le tendenze in atto al fine di mettere in campo politiche contro la controrivoluzione neoliberista sono i temi che si stagliano sullo sfondo di questa ricerca comunque militante. Merito dei ricercatori aver definito e perimetrato il «campo» dove si manifestano processi ambivalenti di critica e distanza dall’ordine del discorso dominante. Ora serve avviare processi di soggettivazione politica. Cioè quella semplicità sempre difficile a farsi.