I vertici aziendali confermano l’addio a Napoli e scatenano la rabbia degli operai. Conte: faremo qualsiasi cosa
ANTONIO E. PIEDIMONTE
E venne il giorno dell’addio. Via Argine, periferia orientale di Napoli, i lavoratori della Whirlpool escono dall’assemblea e vanno a bloccare il traffico. Un gesto ormai quasi simbolico, un modo per stringersi ancora (con le mascherine), più delusi che arrabbiati, travolti dallo sconforto. La mazzata, ricevuta via sms, però li ha piegati ma non spezzati: «Questa non è la fine, questo è un nuovo inizio». Ieri mattina i circa quattrocento dipendenti della fabbrica partenopea da tempo al centro delle cronache hanno appreso che la multinazionale ha ufficializzato il suo definitivo game over: «La Direzione comunica la cessazione di tutte le attività produttive con effetto alle ore 00:01 del 1° novembre 2020».
Dunque, alla fine tutto si è rivelato vano: la lunga mobilitazione nazionale, l’impegno del governo, il battage mediatico. Niente. Neppure la peggiore pandemia degli ultimi cento anni ha fatto cambiare idea ai manager della Corporation del Michigan. Persino il premier pare alzare bandiera bianca: «Abbiamo dato massima disponibilità al board americano – ha spiegato Conte – abbiamo proposto incentivi e decontribuzione. Ma Whirlpool non riesce a creare nessuna prospettiva per questo stabilimento. Abbiamo provato tutto». Stessa lunghezza d’onda per il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli: «Non abbiamo strumenti cogenti per impedire il disimpegno dell’azienda». Così, nonostante la giornata di sole quasi primaverile, sopra lo stabilimento di Ponticelli si sono addensate cupe nubi. Il rischio di un Natale assai triste si è fatto pericolo concreto e le luci che ieri sera il Comune di Napoli ha fatto spegnere in segno di solidarietà hanno fatto pensare a tutte quelle luminarie che potrebbero a loro volta oscurarsi in tante case.
La rabbia e il dolore
«Abbiamo il cuore infranto, questa era la nostra vita». E tuttavia l’angoscia sa trasformarsi in risolutezza: si organizza un’assemblea aperta (per oggi) e ci prepara allo sciopero generale di giovedì prossimo. Alla tempra operaia si aggiunge la forza ancestrale delle madri, che oggi ha il volto di Italia Orofino, due figli di 12 e 14 anni, Raffaele e Rosaria, che sta crescendo da sola. La sua voce, per quanto pacata, risuona come duro metallo: «Certo che siamo delusi dopo tante parole, promesse, proclami. Domani – dice a La Stampa – li aspettiamo tutti ai cancelli, ministri compresi, così magari potranno dimostrare che i loro non erano annunci elettorali. Ora cosa fanno? Noi non ci arrendiamo, e loro?».
Affranto ma fermo anche il commento Lello Romano, 52 anni di cui 30 trascorsi nella fabbrica, a casa una moglie e due figli, che spiega: «Dove sono quelli che sono venuti a fare passerella? Quelli che dicevano Napoli non si tocca? Lei sa cosa significa perdere il lavoro a 40 o 50 anni qui al Sud? E vogliamo ricordarci che questa fabbrica è un presidio di legalità in una zona di grande degrado e ad alta densità camorristica?».
Al grido degli operai si aggiunge l’urlo dei sindacati. Nel pomeriggio arriva la nota dei segretari generali di Cgil, Cisl e Uil Napoli. Walter Schiavella, Gianpiero Tipaldi e Giovanni Sgambati spiegano che questa città «non può permettersi di perdere neanche un posto di lavoro, tanto più in una fase così delicata a livello economico e sociale».
Il pensiero torna alle famiglie. Signora, cosa ha detto ai suoi ragazzi? «La grande si è chiusa a riccio, non guarda la tv, non vuole parlarne. Il piccolo mi ha detto: “Mamma, non ti devi preoccupare, per i libri di scuola mi posso arrangiare con le fotocopie”», e la voce della granitica Italia sembra per un attimo incrinarsi.