Cominciamo con lo smentire la giustizia e l’equità dell’io sto a casa, postato ad nauseam sui social e apparso in ogni dove, dallo schermo dei nostri smartphone ai cartelli autostradali, motto che andava a braccetto con l’ipocrita retorica del “siamo tutti sulla stessa barca” o del ancora più sdolcinato “ce la faremo”. Forse affermeremo l’ovvio, ma non eravamo tutti sulla stessa barca. Le élite hanno affrontato la forzata clausura nelle loro ville lussuose, i poveri in angusti appartamenti, ammassati in pochi, soffocanti metri quadri. Alcuni hanno convissuto con la tragedia della povertà, della disabilità, della violenza domestica. Ma anche tra i poveri la pandemia ha generato differenze radicali: i lavoratori del settore pubblico, certi del loro stipendio, hanno potuto affrontare con più serenità la terribile prova, per i piccoli e medi commercianti la quarantena ha comportato (un’impresa su tre non ha riaperto i battenti) la fine di sogni, progetti, speranze per il futuro.
La strategia di mettere indiscriminatamente agli arresti domiciliari l’intera nazione, una deformazione del concetto stesso di quarantena, ideata per separare gli individui malati dai soggetti sani, sta avendo le sue drammatiche ripercussioni. Ancora oggi percepiamo solo in minima parte le infauste conseguenze di tale decisione; ecco allora che i nostri esperti parlano di “stati generali dell’economia”, di “risanamento”, di “new deal”, termine ripescato ad hoc dall’epoca rooseveltiana per innestare nelle menti di chi ascolta un falso senso di sicurezza. Parlare apertamente di collasso economico e di grande depressione non riscuoterebbe lo stesso consenso.
I media, dallo scoppio della pandemia, hanno adottato un’unica linea di pensiero, conforme e asservita a ciò che una ristretta cerchia di virologi hanno con “grande lungimiranza e per il bene della nazione” approvato. A chi osava discostarsi dalla dottrina ufficiale, gli veniva appiccicata sulla fronte l’etichetta di esaltato, di agitatore, di complottista. L’eresia nel XXI secolo ha assunto nuove forme; i dissidenti non vengono più messi al rogo, ma esposti alla pubblico ludibrio e alla gogna mediatica. È quello che accaduto al filosofo Giorgio Agamben, martirizzato e deriso dai giornali, per aver criticato aspramente la gestione della pandemia:
Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, che le persone che ci sono più care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero soli, ma che, (cosa che non era mai avvenuta prima, da Antigone a oggi), i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?
Giorgio Agamben
Agamben ignorava che l’Antigone dei giorni nostri è una signora dal faccino pallido e smagrito, lo sguardo spento, l’espressione tremante, che si tormenta ansiosamente le mani davanti al televisore in attesa di sentire il nuovo decreto legge del signor C(re)onte. Di dare degna sepoltura al suo amato fratello Polinice non ne ha il coraggio. La passione e lo spirito ribelle si sono estinti in lei a furia di ascoltare i bollettini quotidiani dei contagiati, dei guariti e dei morti. Anche Fedra in effetti, che nel celebre mito era consumata dalla folle passione per il giovane Ippolito, nel 2020 avrebbe dovuto rinunciare alla sua passione, perché il governo, in tempi di crisi, ha messo sotto chiave anche l’amore.
Il modo in cui reagiamo al pericolo, più che il pericolo in se stesso, ci rivela in cosa crediamo, per cosa siamo disposti a mettere a repentaglio la nostra vita. Quali conclusioni possiamo trarre, quale giudizio possiamo formulare su un popolo che di fatto ha ceduto allo Stato, senza battere ciglio, il diritto di decidere quali aspetti della sua vita fossero essenziali, quali valori sacrificare, quali libertà sopprimere. Il processo di civilizzazione comporta un sensibile aumento di quelle che Freud, memore del contratto sociale hobbesiano, chiamava “restrizioni pulsionali”. L’individuo in cambio della promessa di una maggiore sicurezza rinuncia ad alcune delle sue libertà. La vita, in una società moderna, si regge su un delicato equilibrio tra sicurezza e libertà, equilibrio che può pendere drammaticamente in un senso o nell’altro, come avviene nei regimi dittatoriali, nei momenti d’anarchia o come è accaduto durante la pandemia da coronavirus.
Abbiamo poi accettato senza farci troppi problemi di limitare in misura che non era mai avvenuta prima nella storia del paese, nemmeno durante le due guerre mondiali (il coprifuoco durante la guerra era limitato a certe ore) la nostra libertà di movimento. Abbiamo conseguentemente accettato di sospendere di fatto i nostri rapporti di amicizia e di amore, perché il nostro prossimo era diventato una fonte di contagio.
Giorgio Agamben
In pochissimo tempo, tutti i nostri valori, i pochi valori sopravvissuti al cataclisma ideologico del XX secolo, sono stati spazzati via. Amicizia, relazioni, libertà di movimento e di culto sono divenuti superflui e tutto sommato sacrificabili. Il tanto osannato diritto al lavoro è stato sacrificato sull’altare della sicurezza e della salute pubblica; e persino ora, in questa incerta e traballante fase tre, alcune sfortunate attività non hanno avuto il permesso di riaprire i battenti. Per i gestori di discoteche, sale da ballo e similaria non c’è pietà nel nuovo mondo. Anche le università hanno dovuto e dovranno adeguarsi al nuovo modello di “distanziamento sociale”; i ragazzi delle scuole medie e superiori e gli universitari dovranno “frequentare online”. Come un maligno cavallo di Troia l’uso smodato e incontrollato di Internet sta distruggendo la nostra società dall’interno: le lezioni online ormai sono viste come un valido e accettabile sostituto di quella che un tempo era la scuola.
La vita durante la pandemia è stata ridotta e compressa entro le mura dello spazio domestico; gli spazi pubblici di svago, aggregazione sociale, mobilitazione politica sono stati presi in ostaggio da una classe politica cieca e ottusa che, nei suoi comunicati stampa, ha incominciato a rivolgersi al popolo con uno stucchevole, quanto nauseante tono paternalistico. Virginia Raggi, sindaca di Roma ed esponente del Movimento Cinque Stelle, ai tempi della fase due dichiarò con voce impettita che “i parchi aperti sono una concessione che ci viene fatta dal presidente del Consiglio, ma dobbiamo meritarcela”. Non dovrebbe sorprendere più di tanto la dichiarazione della Raggi, che si era iscritta sull’onda dell’autoritario “Noi consentiamo” del nostro premier Conte. Come dimenticare l’era degli schizofrenici decreti quotidiani del nostro affascinante e fascinoso azzeccagarbugli, decreti che hanno condizionato pesantemente la nostra vita, (sebbene la validità dei suddetti decreti sia stata più volte criticata e parzialmente smentita da giuristi). Anche i luoghi di culto non sono stati risparmiati. Le chiese furono sbarrate; l’accesso ai fedeli negato.
Ci è stato detto che era impossibile garantire la nostra sicurezza, ma se il distanziamento sociale poteva essere rispettato nei supermercati, nelle edicole, nei tabaccai, se il circo mediatico non rinunciava ai talk show e agli spettacoli e i programmi d’intrattenimento registravano indici di share altissimi, se i nostri politici viaggiavano in lungo e largo attraverso l’Italia, organizzavano conferenze, discutevano in fitti conciliaboli a Palazzo Chigi, i luoghi di culto furono proibiti lo stesso perché “troppo pericolosi”. Troppo pericoloso fu anche dare degna sepoltura ai nostri morti, caricati su spettrali camion militari e ammucchiati tutti assieme per finire in qualche anonimo inceneritore. Certo avremmo dovuto storcere il naso di fronte a queste prevaricazioni, ma la contestazione non andava di moda ai tempi del coronavirus e bisogna ammettere che, ad eccezione di qualche isolata voce fuori dal coro, le imposizioni del governo passarono con il beneplacito della popolazione. Se ci furono delle critiche era per denunciare la scarsa efficienza e il poco autoritarismo del governo italiano, che rispetto all’idilliaco modello cinese (patria di un regime dittatoriale) mostrò fin troppi dubbi e tentennamenti e fu troppo debole e permissivo. I nostalgici di Mussolini hanno riscoperto nel leader cinese Xi Jinping il degno successore del loro amato duce; emblematici i post inneggianti all’odio nei confronti dei runners e dei trasgressori che osavano disobbedire ai sacri dogmi del governo.
Secondo Agamben, tutto questo è potuto avvenire:
perché abbiamo scisso l’unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, in un entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall’altra. Questa astrazione è stata realizzata dalla scienza moderna attraverso i dispositivi di rianimazione, che possono mantenere un corpo in uno stato di pura vita vegetativa. Ma se questa condizione si estende al di là dei confini spaziali e temporale che le sono propri, come si sta cercando oggi di fare, e diventa una sorta di principio di comportamento sociale, si cade in contraddizioni da cui non vi è via d’uscita.
Giorgio Agamben
L’uomo moderno non è in grado di confrontarsi serenamente con la morte, la morte è il nemico supremo, la summa di tutti i mali. Difettiamo del pragmatismo e della semplicità degli antichi che pur con tutti i loro difetti riuscivano a comprendere che la morte era una parte inevitabile della vita e neanche il peggiore dei mali. Ma una società non vuole correre il rischio di morire, è anche di fatto una società che si rinchiude nel proprio guscio e rinuncia a vivere. Ogni rinuncia è lecita, ogni privazione dovuta, possiamo genufletterci di fronte al tirannico modello cinese, chiudere il Parlamento, rinunciare alle relazioni sociali, proibire il lavoro, sprofondare in una nuova, devastante crisi economica, tutto a patto di avere salva la vita, o meglio l’illusione della sicurezza.
Vale la pena concludere l’articolo con un estratto dell’intervista a Francesco Benozzo, docente universitario dell’ateneo di Bologna e candidato al Nobel per la letteratura.
Quella del Coronavirus è una grande truffa. Si tratta di un’epidemia dichiarata che non miete masse indistinte di persone, ma che invece uccide in massa i diritti di libertà e la dignità di tutti, imponendo un punto di vista univoco che vieta agli individui di autodeterminarsi e abituando la popolazione ad accettare come normalità la sospensione dei propri diritti inalienabili.
Francesco Benozzo