Vanno bene le serie tv e i nuovi bestseller Ma alla fine vince sempre Itaca
di Maurizio Bettini
I miti classici invadono le librerie, popolano le mostre d’arte, suscitano interventi e conferenze in giro per l’Italia, ispirano perfino serie televisive. Perché tanta fortuna? Per rispondere a questa domanda potremmo partire da una delle definizioni più belle, o almeno più efficaci, che siano state date a proposito di quella cosa che chiamiamo “mito”. Per essere considerato tale un racconto deve godere di queste due caratteristiche: “ tradizionalità” e “ significatività”. Mi spiego. La prima prevede che il racconto in questione faccia parte da lungo tempo della memoria culturale condivisa da una certa comunità; la seconda, ancora più rilevante, richiede che questo racconto abbia la capacità di “fare contesto”, ossia di entrare in relazione con una molteplicità di altri livelli presenti nella cultura in cui si colloca: testi, immagini, luoghi, modi di dire, comportamenti e così via. Per fare solo due esempi, nell’antichità greca i miti contenuti nei poemi omerici si legavano a fondazioni di città, rituali religiosi, luoghi ( e relativi nomi) sparsi un po’ per tutte le coste del Mediterraneo; mentre a Roma parlare di Romolo significava rievocare direttamente l’origine della città ovvero la sua vocazione imperiale, dato che il fondatore era figlio di Marte. Non c’è dubbio però che i racconti provenienti dalla mitologia classica abbiano continuato a godere di entrambi questi requisiti — tradizionalità e significatività — anche nel seguito della nostra cultura. Essi infatti hanno continuato a farne parte per oltre due millenni, con una continuità mai interrotta: neppure il cristianesimo ha potuto, o voluto, fare a meno dei testi letterari e delle immagini che ne tramandavano la memoria, tant’è vero che i nostri musei spesso presentano Veneri e Madonne nella medesima sala. Per lo stesso motivo — ossia per il fatto che si è continuato a leggerli, interpretarli e rappresentarli da un secolo all’altro — i miti classici sono anche “significativi”: perché la menzione dell’uno o l’altro eroe ( Ercole con le sue fatiche, Edipo col suo complesso), così come dell’uno o dell’altro luogo (Itaca, l’Olimpo), risuonano immediatamente a vari livelli della nostra cultura, dall’arte alla filosofia, dalla letteratura ai proverbi, e così via. Naturalmente la significatività dei racconti mitologici aumenta quanto più cresce anche la consapevolezza che ne hanno i singoli. Resta però il fatto che, in una cultura direi fragile come la nostra, la tradizionalità e la significatività dei miti classici costituiscono comunque un punto di riferimento fondamentale. Siamo una società spaventata dagli algoritmi, imbarazzata dalla povertà ripetitiva della letteratura, mentre lo spazio del grande cinema (quello cui eravamo abituati in passato) si riduce sempre più dietro l’incalzare di serie televisive che, salvo meritevoli eccezioni, ti mettono davanti agli occhi solo cadaveri putrefatti. Siamo un po’ disorientati, insomma, e in attesa di vedere come andrà a finire — perché certo qualcosa dovrà succedere — torniamo volentieri a Itaca. Ma basta questo per spiegare l’attrazione esercitata dalle antiche vicende del mito? Sicuramente no.
Non dimentichiamo che i miti, quelli che ci sono giunti dal nostro passato classico, costituiscono una sorta di fior fiore della cultura antica. A sopravvivere e a imporsi per la loro “ significatività” sono stati soprattutto i più belli, i più ricchi di fantasia, i più complessi: fra cui quelli che affrontavano problemi e dilemmi così profondamente umani da ripresentarsi uguali anche oggi. Medea, la madre assassina, resta purtroppo anche un personaggio della cronaca quotidiana; Oreste, il matricida, ha dato vita al primo, inquietante dibattito processuale nella storia del nostro diritto, e i giuristi ancora oggi ne discutono l’esito. E che dire di Edipo? È un patricida, un incestuoso, un mostro — ma non era affatto consapevole di commettere queste colpe. Anzi, una volta conosciuto il suo sciagurato destino cercò di sfuggirgli in tutti modi: salvo che fu proprio la sua fuga a farlo cadere in trappola, fino a trasformarlo nel “ detective” che, con tragica ironia, scoprì in se stesso colui che appestava Tebe. È difficile resistere all’attrazione esercitata da vicende caratterizzate da tale potenza. Potrà sembrare paradossale, ma questi racconti favolosi, in cui il divino e l’umano si mescolano ( è Atena che presiede l’Areopago) e la fantasia trionfa ( Medea sfugge al castigo perché portata in salvo da un carro celeste), sono in realtà dotati di una straordinaria “autorevolezza”. Si tratta di un’autorevolezza che essi possiedono per la loro intrinseca natura, come abbiamo detto, ma che secoli di riletture e interpretazioni (poeti, filosofi, psicoanalisti …) hanno progressivamente contribuito ad accrescere: nella convinzione che dietro questi viluppi narrativi — fantastici, spesso addirittura enigmatici — si celassero “ significati” che valeva la pena estrarre per dar loro nuova vita. A pensarci bene, però, il carattere dell’autorevolezza il “mito” lo possedeva fin dalla sua stessa origine: a rivelarlo è il significato stesso di questa parola.
All’inizio, infatti, con mythos i Greci non indicavano un racconto favoloso, affascinante ma poco credibile, come si potrebbe pensare: tutto al contrario, in questo modo essi designavano proprio il parlare autorevole. Se guardiamo ai poemi omerici, viene definito mythos il discorso proferito con veemenza dai maschi guerrieri sul campo di battaglia, così come
mythoi sono dette le orazioni pronunziate, in assemblea, da eroi che posseggono il prestigio necessario per farlo. Il mythos delle origini è un discorso assertivo, che chiede di essere “ eseguito”. Un discorso molto autorevole, pronunziato da locutori che lo sono altrettanto.
Ciò detto torniamo conclusivamente in libreria, di fronte allo scaffale “ mitologia” pieno zeppo di testi; o davanti allo schermo televisivo, per seguire le avventure di Odysseus o di Hercules. E se la cultura contemporanea altro non stesse facendo se non confermare la propria fiducia nell’antica autorevolezza del mito?