di Matteo Pucciarelli
MILANO — Stavolta il giochino — si racconta nel dietro le quinte del Carroccio — non ha funzionato e anzi, si è trasformato in un boomerang potenzialmente disastroso: altro che star lì a fare i sofismi sul Green Pass per far contenti i No Vax e non lasciare praterie a Fratelli d’Italia, ora il rischio concreto è che si arrivi direttamente all’obbligo vaccinale per tutti.
L’ipotesi avanzata da Mario Draghi il giorno dopo l’ostruzionismo leghista in commissione Affari sociali contro il “lasciapassare” mette con le spalle al muro soprattutto Matteo Salvini, che per mesi ha giocato sul filo delle ambiguità sul tema vaccinazioni. Le “fonti Lega”, dizione che si usa in questi casi quando a parlare è comunque il leader, replicano che no, «la Lega era e rimane contro obblighi, multe e discriminazioni », perché «in nessun Paese europeo esiste l’obbligo vaccinale per la popolazione. Insistiamo invece, e porteremo la proposta al voto anche in Parlamento, perché lo Stato garantisca tamponi gratuiti, salivari e rapidi, per tutti coloro che ne abbiano necessità». Già, una reazione scontata, d’ufficio, ma sembra di tornare a metà luglio, quando Salvini tuonò contro quella che era ancora una semplice ipotesi che trapelava da Palazzo Chigi sul Green pass e alla fine invece dovette battere in ritirata, portando la Lega a votare sì in Consiglio dei ministri.
Il punto è che la sua posizione di lotta e di governo, come si suol dire, era giù guardata con una certa perplessità da un pezzo di Lega che conta: in primis il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, ma poi soprattutto i presidenti di Regione del nord, Luca Zaia, Attilio Fontana e Massimiliano Fedriga (lui a Radio 1 definisce il Green Pass «uno strumento che può dare più libertà»). Il nord, appunto: il più colpito dal Covid-19 e che si aggrappa ai vaccini per far ripartire l’economia a pieno regime. «Basta con lo star dietro alle menate di quattro scappati di casa No Vax: imprenditori e commercianti ci chiedono di lavorare e per questo spingere sui vaccini, unico modo per uscire dall’epidemia, niente altro», spiega un esponente di peso dei lumbard . Ma ad andarci dietro, finora, è stato proprio il segretario federale. Quello di mercoledì scorso, col no al Green Pass in commissione Affari sociali spaccando l’insolita maggioranza, non era stato mica un incidente di percorso. Claudio Borghi infatti era lì in commissione in sostituzione di una collega assente (Federica Zanella), visto che non ne è un membro effettivo. E c’era andato su indicazione del gruppo, quindi dei vertici del partito. Il focus era appunto sul contestato pass e perciò mandare Borghi rappresentava un messaggio politico ben preciso: da settimane il parlamentare, già economista No Euro, prometteva battaglia in aula per modificare il provvedimento del governo. Non è un caso se a Borghi durante la seduta si erano allineati in pieno gli altri sei eletti leghisti in commissione (anzi, tecnicamente cinque perché Rossana Boldi presiedeva la seduta) con una pioggia di emendamenti, alcuni tecnici altri invece miratissimi a smontare il senso stesso del Green Pass. Il tentativo era quello di portare effettivamente a casa delle “mitigazioni” e rivendersele politicamente il giorno dopo con tutta la non si sa bene quanto vasta platea di critici al lasciapassare — Borghi ad esempio ricorda che sono 12 milioni gli italiani che non ce l’hanno, come a dire: mica pochi — , operazione fallita e che piuttosto ha fatto spazientire Draghi.
Salvini non se n’è ancora convinto, timoroso della concorrenza in quel campo di Giorgia Meloni, ma ormai quella che appare ancora come una maggioranza silenziosa interna al partito si è stufata della coabitazione scomoda con i vicini al mondo No Vax e all’estrema destra. Per dire: la reazione di Fontana al voto di mercoledì, per chi ne conosce lo stile moderato nei toni, è stata di aperto stupore, contrarietà. «Difendo con rigore il valore della vaccinazione, che trova fondamento nei numeri i quali, da quando abbiamo iniziato la campagna di immunizzazione, sono eccellenti nella nostra Regione», le sue parole. “Il valore della vaccinazione”: una bestemmia per chi invece liscia il pelo al complottismo nostrano. Ma il fronte leghista lombardo, cuore pulsante del leghismo vecchio e nuovo, è agitato anche dalla rivendicazione della propria vicinanza al mondo del neofascismo di Max Bastoni, storica figura del Carroccio milanese e legato a doppio filo agli estremisti di Lealtà e Azione. «Sono un antifascista, democratico e liberale», la risposta di Fontana. Oppure Gianmarco Senna, consigliere regionale che fa ticket con Annarosa Racca, la farmacista nominata capolista della Lega a Milano, anch’egli molto vicino a Salvini ma pure alla comunità ebraica: «Mah, Bastoni lo ricordavo alle manifestazioni pro-Israele. Penso che se vogliamo rappresentare i ceti produttivi, se vogliamo competere con Pd e 5 Stelle sui temi oggi che stiamo al governo, il nostro spazio politico deve essere un altro e la verità è che stiamo andando proprio in questa direzione». La Lega, insomma, sta cambiando (nuovamente) pelle. E lo sta facendo, ormai, con o senza Salvini.