Le scarse ambizioni dei partiti

 

di Paolo Mieli

 

L’ironica battuta di Mario Draghi sul fatto che a fine legislatura un nuovo lavoro se lo cercherà per conto proprio, ha messo a nudo un gigantesco problema della politica italiana. Siamo forse l’unico Paese del pianeta in cui, da oltre dieci anni, i governi vengono creati dal capo dello Stato e ricevono la fiducia da coalizioni parlamentari create lì per lì. L’approvazione per via elettorale di tali coalizioni è del tutto marginale, talvolta nulla. Il consenso di deputati e senatori a questo genere di governi è, d’altra parte, motivato dalla volontà di non misurarsi anzi tempo con le urne per non mettere a rischio il seggio. Il tutto viene giustificato con le varie emergenze che si susseguono (economica, sanitaria, domani sarà l’Ucraina). Gli elettori possono attendere. E può darsi che lo sconcerto generato da quest’attitudine abbia qualcosa a che fare con le ondate astensioniste in costante crescita ad ogni convocazione dei comizi.

Draghi pareva essere, per l’astuta politica italiana, il nome giusto per metterci al riparo e avviarci a un secondo decennio del tutto simile a quello che ci siamo lasciati alle spalle. Nell’imminenza di improcrastinabili elezioni politiche, avrebbe tolto a tutti i partiti l’imbarazzo di dover indicare un proprio esponente adatto a capeggiare un futuro governo. E li avrebbe altresì esentati dalla difficoltà di dover offrire ai propri elettori una coalizione per cui votare. Imbarazzo e difficoltà di tutti. Da destra a sinistra.

L a destra, pur premiata dai sondaggi, appare ormai incapace di cimentarsi con una sfida elettorale. Silvio Berlusconi, dopo aver costruito quasi trent’anni fa lo schieramento autodefinitosi «moderato», fa intendere in ogni modo di non voler eredi. Ogni tanto finge di averne individuato qualcuno, ma si tratta di personaggi alquanto improbabili. La clausola da lui stesso inventata secondo cui la formazione che ha più voti avrà diritto a scegliere il leader ad ogni evidenza non funziona. Il fatto poi che i partiti della coalizione di destra si trovino parte in maggioranza, parte all’opposizione, non giova alla ricerca di un assetto stabile. Giorgia Meloni e Matteo Salvini non nascondono più di esser giunti ai limiti della reciproca sopportazione. Avrebbero bisogno di trovare un candidato premier fuori dai loro recinti per poi farlo accettare da Berlusconi. Impresa ardua. Di realizzazione quasi impossibile per formazioni che da tempo non riescono più a trovare accordi plausibili neppure a livello locale. Meglio (per loro) lasciare la questione nel vago e andare avanti alla giornata.

I partiti intermedi tra destra e sinistra (evitiamo di chiamarli centro) annoverano personalità talvolta di carattere ma con scarsa propensione allo stare assieme. Solo se uno di loro tentasse un’orgogliosa marcia solitaria e gli altri seguissero senza porre condizioni, potrebbero avere qualche piccola possibilità di imporsi. In mancanza di ciò, l’unica opportunità che ritengono di avere è quella di battersi in ordine sparso nel nome di un Draghi o di un simil Draghi, cercando di impedire che qualcuno vinca. Per poi ottenere come compenso qualche posto di governo nella maggioranza che si troverà nel nuovo Parlamento. Parlamento che, sia detto per inciso, la loro strategia avrà contribuito a rendere caotico.

La sinistra potrebbe nutrire maggiori ambizioni. Dispone di personalità da offrire agli elettori come capi di un futuro governo. Ha un rapporto funzionante con le altre istituzioni e con l’Europa. Non ha neppure la necessità di mettere a punto un programma tanto è in sintonia con quello di Draghi. Il suo unico punto debole è la tenuta dell’alleato M5S. Ma la sinistra — con l’eccezione talvolta di Enrico Letta — appare allettata, ai confini dell’ipnosi, dalla possibilità che possa riprodursi quel che è accaduto dai tempi di Mario Monti ad oggi. Che si possa cioè rivivere un decennio paradisiaco nel quale (a parte la breve esperienza del Conte I) la stessa sinistra è sempre stata al governo. Sempre, proprio sempre, senza aver bisogno di conquistare più di un quarto o un quinto dei votanti. Un’autentica pacchia.

L’evocazione di Draghi — o, se l’attuale presidente del Consiglio insisterà con il diniego di venerdì scorso, di un simil Draghi — prefigura il mondo ideale per politici di scarse ambizioni: quello in cui è impossibile vincere ma è, per ciò stesso, impossibile che vincano gli avversari. Questa è per i partiti politici italiani l’unica cosa che conta: eliminare il rischio di una sconfitta. Il sogno di tutti i partiti, da Forza Italia all’estrema sinistra, si concretizza nell’auspicio di «nessun vincitore, nessun perdente». Un’idea di futuro a cui sembra si stia felicemente adeguando la destra che pure — come insegna la storia del passato decennio — dovrà rassegnarsi a un ruolo subalterno.

A conferma della bontà di questa soluzione, gli osservatori più cinici fanno osservare che anche in altri Paesi si formano talvolta maggioranze diverse da quelle prospettate agli elettori. Anche altrove capita che il primo ministro, già candidato alle elezioni, debba, dopo qualche tempo, cedere il posto a un altro. Si citano, a riprova di ciò, i governi di coalizione in Germania (guidati, però, non da «tecnici», bensì dal leader della formazione uscita vincitrice dalle urne). O i cambi di premier in Gran Bretagna (che in genere proviene dallo stesso partito del predecessore). Vero. Verissimo. Ma — come ha osservato su la Repubblica Luca Ricolfi — non è detto che la definitiva estromissione dell’elettorato dalla scelta delle maggioranze di governo vada bene agli elettori stessi. Né che sia salutare far durare queste pratiche in eterno. Ed è comprensibile che personaggi come Mario Draghi si chiamino fuori da prospettive del genere. Pur se avvolte dalle nobili bandiere del Pnrr o di qualche emergenza prossima ventura.

 

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