Le recensioni sono inutili

Piccolo discorso sulla crisi del recensionismo nostrano, tra contraddizioni, frasi ad effetto, inchini, esagerazioni grottesche (“è un giallo fichissimo”). Dai blog-vetrina ai quotidiani nazionali, non si salva nessuno

 

Paolo Ferrucci

“Se c’è un filo rosso che accomuna la variegata produzione di Xxx è uno sguardo sempre ferocemente prossimo al presente, così prossimo da farsi spesso lente deformante. In questa lente, che a cascata dallo sguardo innerva di sé lo stile, i gangli del presente si amplificano, si moltiplicano, si mostrificano. E Xxx – questo va detto – non è autore che si tira indietro. Una sincera tensione morale ne anima da sempre la scrittura, anche quando c’è da fare a botte con orrori a cui nel quotidiano potremmo solo soccombere”. (Peppe Fiore, la Lettura, 30 settembre 2018)

Se oggi volessimo imbastire un discorso su come si è “evoluto” il recensionismo letterario nostrano, da quello tradizionale dei giornali fino ad arrivare agli odierni carnai virtuali del web, potremmo ipotizzare una classificazione partendo da questo frammento. Qui abbiamo un esempio di recensione classica, ma nella sua derivazione (o deviazione) filo-autoriale, dove il recensore si focalizza subito sull’autore, anziché sull’opera, avviando un cripto-apologo che ne definisce lo “sguardo ferocemente prossimo al presente”, ne valorizza l’indole, ne magnifica la “sincera tensione morale”, sottolineando che l’autore dell’opera recensita “non si tira indietro” eccetera. Ciò che preme al recensore, qui, è mettere al centro l’autore con le sue qualità, guardando l’opera come un corollario che va a servizio del già definito, ovvero della tesi sostanziale dello scritto.

Naturalmente, nel solco della tradizione resiste bene la recensione classica ortodossa, con la sua metodologia ortogonale, quella che tiene dritto il timone senza accenno di derive, che non perde di vista la sua missione, che mantiene la sostanza e non si piega a influenze o pressioni o suggestioni inopportune. La recensione classica ortodossa, che si focalizza sull’opera presa in esame, continua a guidare le pagine e i supplementi culturali, annoverando professionisti di lungo corso, spesso inossidabili. Il romanzo viene descritto con segni asetticamente appropriati, messo in relazione con le eventuali opere precedenti dell’autore, viene analizzato nei suoi elementi e ricomposto nei suoi blocchi di significato, e ne vengono sviscerati i molteplici sensi. Un esempio della minuzia di questo lavoro può darlo un frammento a campione preso da un veterano di lungo corso:

Il rapporto dello scrittore con «il lettore», innanzitutto. Che si offre come fil rouge narrativo, e che ha quale evidente spunto il pirandelliano Uno, nessuno e centomila, sostituendo alla moglie di Gegé che fa notare al marito che il suo naso «pende verso destra», la moglie di Luca, Elisa, che con un certo tremore gli confessa di non aver letto proprio tutto il suo romanzo, avendone «saltato poco. Pochissimo. Un paio di pagine». Con un Luca che, dapprima sollevato pensando che la moglie stesse per confessargli un tradimento, sente poco dopo scavarsi «il sonno da dentro, con un rancore sordo verso la moglie e un sospetto affilato verso il mondo, recensori in testa»; perché: «E se il succo del libro, la visione unica che lo scrittore spera di tramandare per sempre fosse proprio lì?». Di qui l’atteggiamento ossessivo alla Gegé di interpellare chiunque, dai vari personaggi del mondo editoriale a chi abbia avuto tra le mani il romanzo, con un: «Letto davvero tutto?», restando comunque dubbioso sulle risposte ricevute”

Ermanno Paccagnini, la Lettura, 30 settembre 2018
Alle recensioni classiche – ortodosse e filo-autoriali – si affianca poi il filone della stroncatura, ossia la recensione negativa di un libro o di un autore, che, come scrive Davide Brullo nella raccolta Stroncature (Gog Edizioni, 2020), “per essere autentica, deve provenire da chi non ha nessuno intorno, dietro e davanti a sé, non ha padrini né padri nobili né supporti editoriali. Bisogna essere poveri, soli, perfino miserabili per avere l’intelligenza adatta, l’audacia atta alla stroncatura”. Da noi, negli ultimi decenni l’esercizio autentico della stroncatura ha avuto vita difficile, soprattutto perché l’intolleranza del sistema mediatico-editoriale è diventata sempre più soffocante e intransigente, al punto che è ormai acquisito dal senso comune che scrivere male di un libro o di un autore è cosa disdicevole e inopportuna, non degna di persone corrette, fatta sotto l’influsso di sentimenti di rivalsa, o di frustrazione, o di odio o di vendetta. Non si contempla più il fatto che disapprovare o svilire una pubblicazione – con argomentazioni sensate – resti un diritto culturale, oltre che di espressione. Il comportamento che si pretende da chi è contiguo o al servizio del sistema editoriale è di tacere dei libri che non piacciono, specie se dominano il mercato, e si arriva a imporlo con ogni mezzo, inclusa la rappresaglia: come isolare la persona che ha osato infrangere la regola, o toglierle il lavoro, o chiuderle ogni varco alternativo alla sua espressione e alle sue relazioni; in una parola, azzerarla per poterla silenziare e annichilire. Questa è la politica dominante nel mondo giornalistico-letterario, che si è consolidata e si è fatta conoscere bene.

Pamphlet
Davide Brullo
Stroncature
Il peggio della letteratura italiana (o quasi)

 

Sono lontani gli anni Ottanta del Novecento, in cui un venticinquenne Roberto Cotroneo firmava la sua serie di stroncature su Il Sole 24 Ore con lo pseudonimo Mamurio Lancillotto, dal nome del vicario criminale del Seicento che tenne a processo la Monaca di Monza. I tempi – e la salutare arroganza della gioventù, che forse tutti abbiamo avuto – ancora lo permettevano, così Cotroneo (che ancora doveva diventare autore) poteva sbizzarrirsi affermando che Citati è un Bignami, Albinati non ha il senso della misura e nemmeno della scrittura, Del Giudice vola alto per non guardare da nessuna parte, Einaudi è un editore di panna montata e un cortigiano letterario. Già allora, secondo Mamurio Lancillotto, quello librario era un impero in decomposizione, che oggi – dopo più di trent’anni – si trova nello stato avanzato con cui siamo alle prese.

Ma sappiamo che il degrado del nostro recensionismo letterario ha avuto un’accelerazione con l’avvento del web e dei social network, dove negli anni è proliferata una moltitudine di siti e blog “letterari” amatoriali che trattano di libri, con una cascata di recensioni e segnalazioni di nuove uscite che hanno letteralmente sommerso il cosiddetto lit-web, producendo un effetto devastante. Il fatto nuovo di questo lungo fenomeno, che ha progressivamente sterilizzato il terreno di coltura della tradizionale attività di critica letteraria, è che ogni sito-blog produce le sue recensioni e segnalazioni librarie facendosi inviare gratuitamente le copie dagli editori, che sfruttano in questo modo la moltiplicazione delle vetrine promozionali, e ogni sito-blog è condizionato a produrre necessariamente un buon giudizio su ciascun libro, senza eccezioni, perché in caso contrario gli editori cesserebbero di inviare quelle copie gratuite che vanno a impinguare intere biblioteche di narrativa contemporanea e non. Non è raro trovare book-blogger che confessano il vero movente della propria attività promozionale sul web: ottenere i libri gratis, con cui costruirsi una biblioteca senza sborsare un soldo, e potersi anche spacciare per operatore o operatrice culturale. Per gli editori questa spirale perversa rappresenta un affare, perché sfrutta un lavoro promozionale al semplice costo di stampa di una certa quantità di copie-staffetta, senza dover pagare il lavoro di veri promoter.

Dunque, da questo scenario non può che uscire una malattia degenerativa di cui ancora non si conosce l’esito; oggi l’effetto più evidente è il decadimento verticale della qualità recensoria delle varie vetrine web moltiplicatesi in rete, fatte salve poche eccezioni. Per darne un’idea, possiamo trarre un esempio a caso: il romanzo Gli autunnali di Luca Ricci, edito nel 2018 da La Nave di Teseo. In un blog letterario non troppo improvvisato, da cui forse ci si potrebbe aspettare qualche attendibilità, il libro viene elegiacamente definito “un romanzo romantico del romanticismo tormentato e vibrante dell’800; si percepisce forte il rapporto biunivoco tra uomo e natura, la percezione che solo gli spiriti eletti possano decifrarne i segreti messaggi”; un romanzo che espone “il quadro autoptico di un matrimonio che finisce. Non c’è speranza, né desiderio di edulcorare una realtà amara, continuamente ribadita da frasi lapidarie e senza scampo: ‘da un certo punto in avanti, la vita sociale dei coniugi si fa prossima allo zero. I coniugi restano soli, diventano gli unici due attori (e spettatori) del teatrino matrimoniale che hanno messo in piedi’”. Ma, nello stesso blog, a breve distanza, del medesimo romanzo si dice senza mezzi termini che “Né lo stato allucinatorio in cui il protagonista vive, né la poesia che ricerca disperatamente, né il finale inaspettato che per certi punti rovescia lo stato delle cose riescono in fondo a mediare la brutalità della misoginia dello sguardo del protagonista. E viene a più riprese il sospetto che, ancora una volta, la storia non ci sia raccontata da un folle, da un allucinato in cerca di poesia e di vita per sconfiggere l’autunno e la morte, ma da un sanissimo italico maschio che, purtroppo, non fa niente di diverso da quello che fanno da sempre tanti maschi: nascondere dietro a un presunto romanticismo l’imposizione del proprio potere sulle donne, salvaguardare ed elogiare il proprio ego a scapito della vera comprensione dell’altro/a e dei suoi desideri”.

Fin qui, nulla d’impressionante: ben vengano due opposte visioni sulla medesima opera, una sognante e l’altra femminista. Ma l’acqua dei pozzi avvelenati si trova nei posti in cui, con la sciatteria più incompetente, con quella sbrigatività inconsistente e senza metodo che viene clonata da una pagina all’altra, un libro come Gli autunnali è definito così: “Il nostro scrittore vive in una Roma descritta con particolari affascinanti e cinematografici”; “Il romanzo di Luca Ricci è la storia di una ossessione che potrebbe avere risvolti poetici e invece si trasforma in un vero incubo fino a condurre al tragico epilogo, all’inverno della mente che sussegue all’autunno del cuore”. Cioè, che significa? Quale contributo possono dare queste insulse righe a una – nemmeno ipotizzabile – proposta critica? Eccoli, i siti-blog creati e replicati come vetrine pretestuose, dai contenuti inesistenti, con gli inserti pubblicitari che premono e gli editori che ovviamente stanno al gioco vendendo fumo. Un non-senso che si fa metastasi e viene elevato a sistema.

Ad ogni modo, per chiudere la questione del romanzo preso a campione, possiamo dire che Gli autunnali di Luca Ricci rivela per l’ennesima volta i vezzi di certi scrittori italiani: la posa autoriale, la fragilità delle basi, l’impostura artistica, l’inconsistenza dei cliché appena mascherata da espedienti stilistici, un maschilismo latente che si vorrebbe nobilitare con meditabonde immagini pseudo-poetiche. Le banalità seminate nella storia nemmeno indignano più, essendo il cibo abituale di molti frequentatori di bar e di locali d’acchiappo; nemmeno la rozza ricerca di originalità riesce a dare qualche sussulto alla storia, come il (ridicolo) paragonare la luce autunnale di Roma al piscio di un angelo. Luca Ricci sembra voler emulare in tono minore Alessandro Piperno, ma nemmeno in questo può riuscire, essendo l’espressione di un velleitarismo telecomandato e senza basi. Tutto ciò, naturalmente, non ha impedito che il libro venisse proposto dal critico Renato Minore al comitato direttivo del Premio Strega 2018, come se dovesse “rappresentare” la casa editrice La Nave di Teseo.

Ma passiamo ora alle questioni più gravi, agli esiti davvero preoccupanti a cui sta portando il degrado progressivo del recensionismo nostrano. Qui entra in scena la vedette del “Corriere della sera”, il Gianburrasca dei recensori, lo sparigliatore di carte, l’intellectuel terrible della classe giornalistica italiana: Antonio D’Orrico, colui che all’inizio del millennio consacrò il comico Giorgio Faletti come “l’incredibile più grande scrittore italiano”. Di Antonio D’Orrico si è già parlato in diverse occasioni, ma la sua capacità d’imprimere svolte dannose al giornalismo culturale, le sue trovate sempre più ardite lo mantengono a oltranza sotto le luci della ribalta. Dopo aver inventato la recensione iper-magnificante, con la quale ha portato alle stelle gli autori più improbabili, ed essersi tolto lo sfizio di stroncare a capriccio autori veri – con l’incidente di Michele Mari che si presentò alla sede del “Corriere della sera”, si fece annunciare, e appena entrato nell’ufficio gli tirò un ceffone –, Antonio D’Orrico ha infine inventato la recensione connivente, dove non si perita di dichiarare in modo aperto l’amicizia e la frequentazione con l’autore recensito, di cui anzi si fa vanto, introducendone le lodi con un panegirico ridicolmente plateale.

Il caso di specie più recente è quello de Il colibrì di Sandro Veronesi, scontato vincitore dell’ultimo Premio Strega: nella recensione sul Corriere, D’Orrico inizia affermando che, quando non sarà più su questa terra, fra le cose che gli mancheranno ci sarà “la trepida attesa di ogni nuovo romanzo di Sandro Veronesi”. Perché “da ragazzo, quando andava per mare con il padre ingegnere e velista, Sandro era specializzato nel fare il punto nave guardando il cielo stellato come gli antichi marinai (ora ci pensano i computer). Anche nei romanzi Veronesi fa il punto nave, stabilisce dal 1988 il posto esatto della nostra generazione nel tempo”. Dopo essersi dilungato nelle lodi sperticate al suo beniamino, il magnifico recensore racconta addirittura – con un brivido – come sia entrato in possesso, in anteprima, del romanzo:

“«Antonio, la Sgarbi e la Civiletti mi hanno vietato di trasmettere il file a chicchessia. Io però te lo manderei lo stesso. Basta che tu faccia finta di nulla e non ne parli con nessuno fino a quando questo embargo finisce».

Io: «Non c’è problema, sono calabrese, l’omertà è la mia prima natura».
Lui (sfoderando una inaspettata dizione terronica): «Mi sciaccomando, cumpà. Quando torno a casa te lo mando».
Io: «Ok, sei nel buen retiro maremmano?».
Lui: «Sì, te a Tellaro?».
Io: «Uh uh e ho scoperto dopo anni il posto preciso dove venivi da bambino in gita nel bosco di Montemarcello. Il tuo posto delle fragole che una volta sei venuto a cercare senza trovarlo? La prossima volta che ci passo ti mando una foto».
Lui: «Magari!!».
Io: «Sarà fatto».
Lui: «Mandato».
Io: «Ok. Ora vediamo cosa succede al povero dottore».
Più tardi, 17.48, ancora io: «Non ti dico nulla, sono a pagina 70, ora devo uscire, ma se il romanzo continua così, una chicane dietro l’altra… Mamma mia!»”.

Dunque, siamo arrivati a questo punto. Il “critico letterario” del “Corriere della sera”, nel magnificare in una recensione l’ultimo libro dell’importante amico scrittore (già in predicato di aggiudicarsi il secondo Strega), fa il resoconto dei messaggi che si sono scambiati, delle loro pattuizioni segrete, delle battute vanitose, delle loro situazioni vacanziere, nella convinzione che tutto questo aggiunga credibilità e autorevolezza alla sua posizione, anziché toglierne. Di fatto siamo al rovesciamento del reale, al capovolgimento dei ruoli: il critico che si fa fan, e i lettori più furbi che creano i blog e si promuovono recensori.

Per chiudere, segnaliamo che il Corsera, dovendo recensire entusiasticamente il secondo romanzo giallo di Walter Veltroni, quello del ridicolo commissario Buonvino, ha pensato di far applicare questo nuovo format all’inviato speciale Fabrizio Roncone, che così imposta il copione: “Il tipico lavoro scomodo e rischioso: recensire un libro giallo che ti è piaciuto un sacco (premonizioni: la carezzevole voce femminile, al telefono dalla Marsilio, aveva in effetti annunciato che «guardi, mi creda, è un libro strepitoso», ma degli uffici stampa – come sappiamo – devi sempre fidarti un po’ sì e un po’ no; solo che poi il libro in bozze è stato curiosamente consegnato dal portiere insieme a una vecchia edizione di Piovono morti, meraviglia di Jean-Patrick Manchette scovata su eBay: e allora lì, vabbè, pensare che la coincidenza fosse un segnale è stato abbastanza inevitabile). Prendetevi questo appunto: il secondo giallo di Walter Veltroni — seconda avventura del commissario Giovanni Buonvino, già così personaggio da essere nel titolo: Buonvino e il caso del bambino scomparso – è un giallo fichissimo”.

Tutto molto semplice, in poche mosse: fingere di prendere le distanze dagli uffici stampa delle case editrici; nobilitare il walteromanzo giallo accostandolo a un noir di J.P. Manchette “scovato su eBay”; furbeggiare con gli ammiccanti “piaciuto un sacco” e “un giallo fichissimo”. Dunque, prendiamoci questo appunto: «Un sacco bello», vaneggiava quarant’anni fa l’hippy Carlo Verdone.

 

 

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