Mi seguo queste lunghe giornate parlamentari e mi sembrano la sagra della volgarità, quel vocabolario pigro e ripetitivo, quel sarcasmo sciatto, né finezze né guizzi, quelle sgrammaticature, quella sintassi preginnasiale, quel gesticolare da ballatoio, quel monologare sordo e prestampato.
È lo stile ormai codificato e pedestre del medesimo Parlamento impegnato ad abolire il linguaggio d’odio – l’abolizione del manifestarsi dei sentimenti è la misura della vacuità di un’elite senza accento – e cioè a sterilizzare il lessico, che equivale a sterilizzare i cervelli. Programma peraltro già a buon punto. Mi domando com’è stato possibile che riducessimo la volgarità al solo turpiloquio, e penso al nostro grande Guido Ceronetti che lo detestava soltanto se era il surrogato di una coerenza stracciona, ma quando tradusse le poesie di Catullo (quello di odi et amo, ricordate?, oggi una commissione del politicamente corretto abolirebbe odi e dimezzerebbe i suoi versi) le caricò di un turpiloquio ulteriore, per restituire il perfetto vibrare di un corpo e di un genio.
Sono un vile, e non impilerò qui tutte le meravigliose sconcezze di Catullo esasperate da Ceronetti, tutte le paroline proibite che cominciano con la lettera C e finiscono con la lettera O, come l’una si incastra carnalmente all’altra nella metrica, e in un atto che designa la sessualità più prosaica, sfacciata, pederastica, oppure l’insulto più plebeo, più onesto, più disarmato, e potrei recitarle mille volte e non toccherei mai le vette di volgarità di quei suddetti censori trasandati, inconsapevoli di ogni cosa, che si saziano nell’alzarsi da uno scranno per strillare «vergogna».