“Indossiamo la tuta contro la sessualizzazione”, hanno affermato le ginnaste tedesche alle Olimpiadi 2020. Hanno, infatti, gareggiato con una unitard attillata lunga fino alle caviglie. Sono state osannate o criticate dai soliti pigri estremismi. “Le ginnaste tedesche portano a Tokyo una rivoluzione”, recita uno dei magazine di moda più patinati. Dall’altro fronte, invece, pensano sia il solito politicamente corretto pieno com’è di pudore.

Qua abbiamo altre osservazioni. Scopriamo, prima di tutto, quanto il body, chiamato Leotard, non sia obbligatorio. Si tratta, più che altro, di una convenzione cresciuta nel tempo. Non è solo una questione di sensualità: il taglio più alto della gamba aiuta ad avere linee più lunghe, con un possibile miglioramento visivo della prestazione per un punteggio più alto.

La stessa olimpionica Simone Biles ammette di preferire il body. Le permette, dal suo metro e quarantadue di altezza, di apparire più slanciata. Bisogna essere solidali con le atlete tedesche, questo ormai è un obbligo: che ognuno si vesta come meglio crede e come si sente più a suo agio, nel rispetto della disciplina e dello spirito olimpico. Tuttavia, cosa può implicare promuovere un’uniforme “contro la sessualizzazione”?

Il concetto di “sessualizzazione”, anche se ormai viene utilizzato così facilmente e proposto dai media italiani con il solito copia in colla, è recente. Sulla Treccani: “il fatto di venire sessualizzato: musiche, spettacoli che promuovono la sessualizzazione dei più giovani”. Il termine, in questo senso, ha origine statunitense ed è, infatti, entrato in uso per definire le bambine (e bambini) che nelle pubblicità, nei media e nei concorsi di bellezza assumevano pose, trucco, espressività rimandanti a un mondo più adulto, appunto sensuale. Tuttavia ora viene utilizzato in maniera ampia, al traino di un certo femminismo. Negli anni ’80, le pioniere della corrente anti-sex, le americane Catharine MacKinnon e Andrea Dworkin, hanno promulgato il concetto di “oggettivazione sessuale”, ovvero l’idea che le immagini sessuali femminili inducano il cervello maschile a credere che tutte le donne siano semplici oggetti atti alla sola gratificazione sessuale. Questi argomenti, promossi da un femminismo che vede il suo apice pop con The Beauty Myth di Naomi Wolf (1991), sono ora presi sempre più sul serio, tanto da arrivare a un certo allarmismo sulle conseguenze dell’oggettivazione e della sessualizzazione, tracciando collegamenti diretti tra questi e i danni psicologici alle donne da un lato, e cambiamenti nel comportamento maschile dall’altro.

Il termine, se chiaro quando di parla di giovanissimi (pensiamo solo al recente caso dei Drag Kids o al dibattito sul film Cuties), spostato in un ambito adulto, diviene, in verità, ambiguo, scivoloso con il rischio di mettere in gioco anche la libertà e l’autodeterminazione delle donne stesse. Le accademiche australiane Catharine Lumby e Kath Albury, nel saggio The Porn Report (2008),hanno criticato gran parte della recente ricerca sulla sessualizzazione, colpevole, secondo loro, di una generalizzazione e banalizzazione del termine, spesso usato come “un non sequitur causa di tutto, dalle ragazze che flirtano con uomini più anziani al traffico sessuale”.

Le atlete tedesche hanno affermato di avere scelto l’uniforme più coprente anche in solidarietà con le vittime di Larry Nassar, il coach americano colpevole di decenni di abusi e vessazioni su molte ginnaste e, finalmente, condannato. Coprirsi per combattere la molestia sessuale ha, però, delle strane implicazioni: suggerisce che l’indumento, come un semplice body in un ambiente sportivo, sia motivazione e trigger di comportamenti scorretti e vessatori. Implicitamente dice, anche, alle donne cosa sia meglio indossare. Quelle che si coprono sono “contro la sessualizzazione”. E le altre che non lo fanno?

Siamo davanti a una scelta personale e di gruppo che viene segnalata al mondo come comportamento virtuoso. L’attenzione? Sull’immagine femminile, sul corpo, caricando quest’ultimo di nuovi (ma vecchi) significati. Un atteggiamento di matrice americana così bene individuato da Pascal Bruckener che nel saggio La tentazione dell’innocenza, parla del “pudore lascivo”, che “ha l’effetto opposto di sessualizzare e intaccare il tutto con un coefficiente di perversità e di indecenza”.

Indubbio sia legittimo che atleti e atlete scelgano le mise che preferiscono. Tuttavia, bisognerebbe chiedersi cosa comportino manifesti come questi in occasione di contesti agonistici internazionali, che implicitamente giudicano un indumento come più o meno sessualizzato. Forse, per il bene comune, non si dovrebbe rimanere in un territorio soggettivo e discrezionale? Non per ultimo, il rischio è di non considerare quelle colleghe che vivono a proprio agio e con felicità le loro uniformi meno coprenti. Diviene, quindi, necessario difendere dalla morale questi spazi di liberazione sessuale e individuale.

Insomma, queste prese di posizione sempre più comuni e diffuse ci stanno portando, piene come sono di buone intenzioni, in nuovi campi minati. Dire che ci si copre “contro la sessualizzazione” o che bisogna fare dei film e pubblicità con donne meno succinte “contro la sessualizzazione”, ci conduce a possibili territori regressivi in cui il decoro e il controllo del vestiario diventano elementi preponderanti di giudizio. Si può essere contro la molestia sessuale, senza considerare come progresso l’indossare un indumento più pudico, se non nei termini di una maggiore libertà individuale. O no?

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Due curiosità

1. Le Olimpiadi di Tokyo 2020 hanno un motto: “sport appeal, non sex appeal”. Vietate le inquadrature che si concentrino sull’aspetto, in modo da “rispettare l’integrità dell’atleta”. È inoltre non consigliato che le immagini si concentrino su unghie, scollature o acconciature. “Non vedrete nella nostra copertura le cose che abbiamo visto in passato, con dettagli e primi piani su parti del corpo”, ha affermato Yiannis Exarchos, amministratore delegato dell’Olympic Broadcasting Services. “Quello che possiamo fare è assicurarci che la nostra copertura non evidenzi o mostri in alcun modo ciò che le persone indossano”. I dettagli sulle unghie laccatissime delle velociste mancheranno sicuramente a molti.

2. Nel 1900, prima olimpiade in cui le donne furono ammesse, gli organizzatori non erano molto convinti: la preoccupazione principale era che i corpi delle donne durante lo sport fungessero da distrazione per gli atleti. Nel tentativo di superare questo problema, le donne furono costrette a indossare abiti lunghi fino alle caviglie con maniche lunghe e collo alto. Solo nel 1932 fu permesso di nuotare con un costume simile a quello che le atlete usano ora.  Poi, con la liberazione sessuale degli anni Sessanta mano a mano si è visto una liberalizzazione delle uniformi femminili con il suo apice con l’entrata dei bikini del beach volley nel 1996.

*Il sito di Annina Vallarino, “Mai Leggera”, lo leggete qui.