I sondaggi suggeriscono che le prossime elezioni non porteranno ad una maggioranza stabile e che ci si avvia quindi ad un periodo di governi fragili, forse nuove elezioni, sicuramente improbabili alleanze. L’Italia non è l’unico Paese a trovarsi in una situazione simile. Il Belgio è sopravvissuto a lungo senza un governo, la Germania è alla ricerca di una maggioranza da mesi, la Spagna non è messa meglio. L’economia però sembra infischiarsene. La mia previsione per la crescita dell’eurozona nel 2018 è di un tasso intorno al 3% e anche l’Italia, con il suo tradizionale differenziale negativo rispetto alla media europea, confermerà il buon risultato di quest’anno.
Nuovi rischi di instabilità finanziaria non sembrano imminenti anche se preoccupa una possibile virata al rialzo dei tassi di interesse, soprattutto per via della politica monetaria e fiscale degli Stati Uniti che contagerà l’Europa, ma sembriamo oggi meglio attrezzati di ieri ad affrontare questa evenienza.
Forse l’atteggiamento sempre più apatico dei cittadini nei confronti della politica deriva proprio dalla sensazione che l’economia abbia leggi proprie: prima o poi gira, un po’ di soldi tornano e a tirarci fuori dai guai, quando accadono, o ci pensano gli altri o lo facciamo noi in extremis con qualche governo tecnico.
D’ altro canto, di riforme si fa un gran parlare, ma negli ultimi decenni se ne sono viste poche. Ci si è rassegnati all’idea che l’essenziale sia evitare scenari di irresponsabilità estrema e non dare troppi scossoni al fragile status quo.
Ma è veramente così? Sì e no. Sì, perché il ciclo economico – ripresa e recessione – è in gran parte slegato da quello politico. Obbedisce a incentivi di mercato, risponde a fattori internazionali. Ciò che garantisce le condizioni per continuare a far funzionare economia e società non sono tanto i governi, ma soprattutto le istituzioni: l’amministrazione dello Stato, la giustizia, la scuola pubblica, la sanità. Queste ultime possono funzionare anche in una prolungata situazione di instabilità politica. Il loro buon operare – ci dice la ricerca – è condizione essenziale alla capacità di un Paese di crescere nel lungo periodo, alla sua efficienza complessiva e alle opportunità che offre ai suoi cittadini.
No, perché un sistema politico strutturalmente incapace di produrre governi stabili che possano innescare programmi con un orizzonte temporale relativamente lungo prima o poi finisce per avere effetti negativi anche sulle istituzioni, le paralizza, le rende incapaci di rinnovarsi a misura dell’evoluzione della società. Ma questo è un processo di lenta corrosione, non un’emergenza e in quanto tale non allarma, non preoccupa.
Ma se vogliamo andare al di là della congiuntura dovremmo tenere il faro acceso su questo problema. L’Italia ha una fragilità che altri Paesi europei non hanno proprio per la evidente corrosione della tenuta istituzionale. La discussione sulla crisi bancaria ne è solo l’esempio più recente. Ai prossimi fragili governi che si susseguiranno dal 2018, dobbiamo chiedere che, oltre all’ordinaria amministrazione, trovino terreni di consenso bipartisan per rafforzare la macchina dello Stato, la credibilità delle authorities, la trasparenza e l’ammodernamento del loro funzionamento.
Si potrebbe cominciare con una raccomandazione all’onorevole Casini affinché in conclusione di questo assurdo spettacolo della Commissione parlamentare sulla crisi bancaria che sembra soprattutto interessata a distruggere la sottosegretaria Boschi invece che a capire cosa non ha funzionato nel nostro sistema di protezione del risparmio, produca raccomandazioni per un rafforzamento di tale sistema e un suo adeguamento alle migliori pratiche internazionali.
Corriere della Sera – Lucrezia Reichlin – 24/12/2017 pg. 1 ed. Nazionale.