Le difficoltà di Obama in bilico sulla Libia.

Nelle stesse ore in cui veniva lanciata in Egitto la ricetta della stabilità, in Marocco il tentativo diplomatico di far nascere in Libia un governo di unità nazionale subiva una battuta d’arresto addirittura paradossale, della quale il mediatore Bernardino Leon ha potuto soltanto prendere atto: all’appuntamento si sono presentati i «non riconosciuti» del governo di Tripoli e alcuni indipendenti, mentre i «riconosciuti» dalla comunità internazionale del governo di Tobruk hanno dato forfait alla venticinquesima ora.
Come si fa a negoziare in queste condizioni, se sono i tuoi presunti alleati (e non è la prima volta) a farti lo sgambetto? Non solo, dalla Libia sono continuate a giungere notizie secondo cui le milizie fedeli ai due governi unificandi pensano assai più a combattersi tra loro che a combattere la minaccia comune dell’Isis, forte in Libia mentre in Iraq e in Siria affronta qualche difficoltà.
Beninteso a Sharm si è fatto finta di niente. Al Sisi ha ringraziato l’Arabia Saudita, gli Emirati e il Kuwait (una novità, quest’ultimo) per i dodici miliardi di dollari offerti per sostenere l’economia egiziana, ha illustrato le enormi potenzialità offerte agli investitori (anche italiani) dall’ammodernamento e dal parziale raddoppio del Canale di Suez, e ha gradito anche la presenza del segretario di Stato Kerry che si è fatto in quattro per assicurare l’appoggio dell’America e delle sue imprese. Cercando di mascherare di essere proprio lui, in quanto inviato di Obama, il secondo paradosso della giornata.
Kerry sperava di portare in dono ad al Sisi un buon numero di cacciabombardieri F-16 e lo sblocco di somme ingenti. Ma non ha potuto farlo, con grande delusione del Cairo che nel frattempo si rifornisce in Russia, perché serve prima che la Casa Bianca certifichi un miglioramento nel rispetto dei diritti umani in Egitto oppure si rivolga al Congresso affermando che gli aiuti militari e finanziari servono a tutelare interessi nazionali americani.
Obama ha evitato di scegliere, nel primo caso per evitare critiche e nel secondo per non sentirsi rispondere «no», e così Kerry è arrivato a Sharm a mani vuote.
Peccato, perché è inutile sottolineare che armi e soldi possono sì servire contro la guerriglia nel Sinai o il terrorismo interno (che ufficialmente comprende tutti i seguaci dell’ex presidente Morsi), ma servirebbero ancor di più alla generale volontà di «stabilizzare» la Libia.
Una volontà sulla quale, mentre tutti appoggiano la mediazione tra libici, servirebbe forse anche una mediazione tra occidentali. Al Sisi è per fornire armi a Tobruk, e colpisce in prima persona le altre fazioni sperando di poter formare una coalizione araba.
Renzi ha insistito ieri sulla «soluzione politica» in Libia, riconoscendo però il ruolo essenziale dell’Egitto a difesa di una stabilità che è anche la nostra. Federica Mogherini ha detto che «un intervento militare in Libia sarebbe una illusione e non porterebbe lontano». E Kerry sulla Libia non si è sbilanciato.
Obama è pieno di problemi, dai tempi del ritiro dall’Afghanistan all’invio di qualche «stivale nella sabbia» in Iraq per riprendere Mosul, dal negoziato nucleare con l’Iran in dirittura d’arrivo al Congresso repubblicano che lo tratta come peggio non si potrebbe.
Farà qualcosa in Libia, e cosa? Per ora si limita a non escluderlo. Forse Renzi, quando andrà a vederlo a Washington dopo Pasqua, riuscirà a saperne di più. Perché al Sisi non è l’America, e senza l’America le opzioni in Libia sono sempre più limitate.
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